CAP. 9 - LE FORME DI GOVERNO
- LA FUNZIONE DI INDIRIZZO POLITICO E I SOGGETTI DELLE DECISIONI POLITICHE
Secondo i canoni del costituzionalismo moderno, la funzione di individuare i fini politici e tradurli in leggi, la funzione di eseguire tali comandi, in via amministrativa-esecutiva, e la funzione di garantire l’applicazione in caso di controversie o di contestazioni, in via giurisdizionale, è opportuno siano attribuite a organi diversi. Questo è il senso della classica separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario teorizzata da Locke e Montesquieu.
Tuttavia c’è da dire che una separazione rigida è davvero opportuna e possibile solo per la funzione giurisdizionale la cui caratteristica sta proprio nella terzietà dei soggetti che la esercitano. Non è invece così per la funzione legislativa e quella esecutiva-amministrativa.
Guidare verso il perseguimento di determinati fini di carattere generale una comunità politica – vale a dire imprimere a essa un determinato indirizzo politico – comporta poter incidere sia sulla produzione dei comandi normativi, sia sulla successiva esecuzione di essi. Guidare politicamente non vuol dire esercitare le due funzioni, ma influire in misura determinante su entrambe: ed è ciò che fanno i governo a tutti i livelli.
Il modo come viene organizzato ed esercitato il potere politico, e il modo come si arriva a individuare i soggetti ai quali è riconosciuta, di diritto e di fatto, la capacità di esercitare in tutte le forme lecite la funzione di indirizzo politico, è ciò che si usa chiamare forma di governo. Inoltre i lati più strutturali-formali della forma di governo sono ampiamente incisi dal sistema politico, l’insieme degli aspetti funzionali e il contesto sotteso a tale assetto.
La forma di governo attiene al modo come fra gli organi di una comunità politica organizzata si distribuisce il potere di indirizzarla verso determinati fini politici.
2. LE FORME DI GOVERNO: STORIA ED EVOLUZIONE
Le forme di governo possono essere studiate diacronicamente (nella loro evoluzione storica) e sincronicamente (con riferimento a un momento dato). Fondamentale studiarle da un punto di vista storico, perché le istituzioni moderne sono figlie di quelle antiche.
La moderna classificazione delle forme di governo si è sviluppata nella cornice dello stato ottocentesco, liberale e nazionale. Questo spiega perché l’elemento più importante è, in primo luogo, il rapporto fra il capo dello stato e le assemblee parlamentari, in secondo luogo, tra il capo dello stato, le assemblee e il governo.
Il modello primogenito è quello della monarchia inglese che fra Sei e Settecento, a seguito della Gloriosa Rivoluzione, si fa, da assoluta quale anch’essa era, monarchia costituzionale. Era un ordinamento costituzionale, il quale si andò caratterizzando per il progressivo affermarsi della supremazia del Parlamento: sia come limite all’esercizio arbitrario del potere regio, sia come fonte di legittimazione della stessa dinastia. In questa fase i poteri dello stato erano concepiti come separati: nel luogo della rappresentanza, in particolare alla Camera dei Comuni (la camera bassa), si facevano sentire interessi diversi e contrapposti rispetto a quelli della grande nobiltà fondiaria della Corona; il potere politico-amministrativo, restava invece, del re che agiva attraverso i suoi consiglieri (ministri).
L’idea dei poteri separati di Locke e Montesquieu viene seguita dai firmatari della Costituzione americana nel 1787. Non riconoscendo le trasformazioni che stavano prendendo piede in Inghilterra, i padri firmatari elessero un presidente (aberrando l’idea di un monarca) e, vedendo che il governo di sua maestà era del tutto separato dal parlamento, delinearono in termini di separazione i rapporti fra quel presidente (potere esecutivo) e il Congresso (parlamento bicamerale): così vollero che in nessun caso il presidente potesse mandare a casa il Concresso e che questo non potesse liberarsi del presidente, salvo ipotesi dello stato d’accusa (impeachment). La separazione dei poteri è rimasta fino ai giorni nostri caratteristica distintiva del governo presidenziale.
In Inghilterra la monarchia costituzionale già nella seconda metà del Settecento e più ancora nell’Ottocento, specie dopo la riforma elettorale del 1832, si era evoluta verso quello che sarebbe stato chiamato governo parlamentare nella sua versione che si intese chiamare monista (l’indirizzo politico dipendeva ormai solo dai rapporti tra governo e parlamento – il governo parlamentare nella sua versione dualista era quello delle origini, nel quale l’indirizzo politico era determinato anche dal capo dello Stato, dalla Corona, almeno fino al XX secolo).
Tre furono gli elementi di tale evoluzione:
- all’interno del governo di sua maestà emersa la figura del primo ministro: la nuova casata degli Hannover, di origine tedesca, inesperta della lingua e poco interessata ai problemi del Regno Unito, affidò l’esercizio delle sue funzioni ai ministri (la figura più importante fu quella di Sir Robert Walpole, sotto la corona di Giorgio I Hannover);
- facendo ricorso all’istituto dell’impeachment (o anche solo alla minaccia di farne ricorso) la Camera dei Comuni pose le basi del rapporto fiduciario che col tempo divenne un vero e proprio istituto costituzionale, secondo il quale il governo non poteva continuare a esercitare le sue funzioni se gli veniva a mancare la fiducia del parlamento;
- la Camera dei Comuni progressivamente si organizzò in due parti contrapposte, come i banchi sui quali sedevano, gli uni di fronte agli altri, prima fazioni poi partiti, fautori e avversari del governo di sua maestà.
Dopo gli sconvolgimenti provocati dalla Rivoluzione francese, l’epoca della Restaurazione portò al tentativo di importare la costituzione inglese, fissata ancora nella versione monarchico-costituzionale (e non monarchico-parlamentare).
In Francia la Costituzione del 1830 (voluta da Luigi Filippo d’Orléans), si affermò un assetto che fu chiamato monarchico orleanista, caratterizzato da un marcato dualismo: il governo rispondeva sia al re sia al parlamento. Fino alla Prima Guerra Mondiale, si protrasse la convinzione che il vero parlamentarismo fosse necessariamente dualista, cioè fondato su due pilastri: la rappresentanza da un lato, la corona dall’altro.
Fra la Prima e la Seconda guerra mondiale il costituzionalismo conobbe una fase di grande fervore: il crollo degli imperi centrali e dell’Impero russo aveva portato alla nascita di nuovi stati nazionali i quali si dettero tutti costituzioni nuove di zecca. Fu la stagione della prima razionalizzazione del parlamentarismo, in cui i rapporto fra gli organi costituzionali furono riorganizzati seguendo il modello parlamentare britannico. Vi furono anche modelli costituzionali che rilanciarono il dualismo: la Costituzione di Weimar del 1919, in misura più limitata quella Austriaca (1920) e in misura più accentuata quella finlandese (1919). Avevano sia i caratteri del governo parlamentare sia un capo dello stato direttamente elettivo: si trattava, ante litteram, del governo semi-presidenziale.
All’indomani della Seconda guerra mondiale si ebbero in Europa varie ondate di nuove costituzioni: la prima nella seconda metà degli anni Quaranta (Francia, Germania, Italia); la seconda negli anni Settanta (Grecia, Portogallo, Spagna); la terza negli anni Novanta (dopo la fine del dominio sovietico nell’Europa centro-orientale e la scomparsa dell’Unione Sovietica).
Diverso fu il caso della trasformazione della IV Repubblica francese in V Repubblica (dal 1958): vista a tanti anni di distanza, fu quasi un ripensamento rispetto alle soluzioni del 1946. Queste erano state nel segno di un parlamentarismo monista, fondato però sulla prevalenza dell’assemblea rappresentativa e sul ruolo centrale dei partiti politici, e non sul circuito corpo elettorale-primo ministro; così la IV Repubblica aveva riprodotto lo schema proprio della III Repubblica che l’aveva preceduta (1875-1940). Invece la soluzione voluta dal generale Charles de Gaulle, dodici anni dopo, fu marcatamente dualista: al vertice dell’esecutivo c’era un ripartizione d’influenza fra presidente della Repubblica e primo ministro. Fu proprio guardando a essa che si cominciò a parlare di governo semi-presidenziale, caratterizzato forte ruolo del presidente.
Le altre esperienze furono fino al 1990 tutte orientate in direzione monista, con la parziale eccezione del Portogallo. Successivamente si è assistito specie in Europa orientale, a un parziale ritorno a soluzione dualiste, con un ruolo incisivo e politicamente rilevante affidato al capo dello stato, giustificate sia dalla mancanza di una tradizione democratica sia dalla debolezza dei neonati sistemi partitici. Si tratta di una tendenza, peraltro, recessiva: quasi dappertutto va crescendo il ruolo dei primi ministri e della forma di governo presidenziale, ibridata alle singole esperienze politiche-giuridiche (si parla infatti di presidenzialismi).
3. LE FORME DI GOVERNO: TIPOLOGIA
Dal punto di vista del diritto, il potere di indirizzare l’ordinamento dipende dalle attribuzioni degli organi costituzionali e dai rapporti fra di essi, quali disciplinati dalla costituzione e dalle leggi. È però necessario andare al di la del lato esclusivamente giuridico e, cambiando la prospettiva dalla quale le si osservano, tenere conto degli aspetti dinamici delle forme di governo, cioè delle prassi concrete relazionate al sistema partitico e alla cultura politica di ciascuna comunità. Il contesto che si presuppone è sempre quello delle sole forme di stato democratiche di derivazione liberale.
- Forma di governo presidenziale (modello di riferimento classico: Stati Uniti d’America)
Esecutivo
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presidente → direzione monocratica
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Legislativo
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Congresso (Camera dei rappresentanti, Senato)
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Corpo elettorale
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Leg. → Esec.
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Esec. → Leg.
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Convivenza fino alla conclusione del mandato (4 anni) → logica del checks and balances: un potere controlla l’altro
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Governo diviso
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il presidente appartiene ad un partito e una o entrambe le camere vedono in maggioranza l’altro partito → il presidente deve essere abile ad aggiustare la maggioranza
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Assenza di governo di partito
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il presidente appartiene ad un partito che ha anche la maggioranza alle camere → il presidente deve lo stesso cercare il compromesso; i parlamentari godono di una notevole autonomia (non esiste il binomio governo-maggioranza parlamentare)
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- Forma di governo parlamentare (modello di riferimento classico: Regno Unito)
Esecutivo
(presidente del Consiglio)
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Legislativo
(parlamento)
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Capo dello Stato
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Corpo elettorale
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è previsto lo scioglimento prima della scadenza naturale
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forma di governo fortemente influenzato dal sistema partitico e dalle formule elettorali
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Governo di partito
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continuità tra partito-rappresentanza ed esecutivo (forte maggioranza in parlamento)
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- Forma di governo semi-presidenziale (Modello di riferimento classico: V Repubblica francese)
Questa forma combina alcune caratteristiche della forma di governo presidenziale e di quella parlamentare (si pone però l’accento sul ruolo del presidente).
In essa un capo dello stato, direttamente eletto dal corpo elettorale e dotato di importanti attribuzioni di natura politica, convive con un esecutivo legato all’assemblea rappresentativa da rapporto fiduciario: l’esecutivo è a direzione non monocratica ma duale
- come nel modello presidenziale:
- il presidente ha tutti i poteri del capo dello stato, a cui si aggiungono altri incisivi poteri, soprattutto nell’ambito della politica estera, e la stessa presidenza del Consiglio dei ministri (taluni di questi poteri possono essere esercitati senza che la costituzione preveda obbligo di controfirma da parte del governo);
- presidente e parlamento sono eletti dal corpo elettorale separatamente;
- come nel modello parlamentare
- il presidente ha il potere di condizionare la durata del parlamento (con lo scioglimento) e il parlamento ha il potere di far dimettere il governo (con la sfiducia);
- il governo è di nomina presidenziale,
Anche la forma di governo semi-presidenziale è influenzata dal contesto dei partiti. Infatti si può verificare:
- uniformità (si parla di coalizione): presidente ed esecutivo sono espressione dello stesso schieramento. Nella prassi si verifica in genere una sostanziale prevalenza del presidente, ma si può dare anche il caso di una prevalenza del primo ministro.
- difformità (si parla di coabitazione): presidente ed esecutivo espressione di opposti schieramenti. Si presenta qualche somiglianza col governo diviso del modello americano: infatti ne consegue la necessità di trovare giorno per giorni un modus vivendi che permetta di conciliare indirizzi politici diversi quando non contrapposti, fino al momento in cui si tornerà al voto per l’una e l’altra carica.
La grande differenza col governo presidenziale sta però nel fatto che l’esecutivo è comunque “a due teste” e nella possibilità per il presidente di indire elezioni anticipate.
- Forma di governo direttoriale (Modello di riferimento classico: Svizzera)
Titolare del potere esecutivo è in questo caso un organo collegiale ed è chiamato così in riferimento al nome che fu dato nella Francia rivoluzionaria fra il 1795 e il 1799 all’organo eletto dal parlamento col compito di agire sulla base dell’indirizzo politico di questo.
Il “direttorio” è al tempo stesso vertice del governo e vertice dello stato, come il presidente delle forme di governo presidenziali. Questo collegio non è eletto dai cittadini direttamente, bensì dal parlamento. Il parlamento pur esprimendo il governo, non può successivamente sfiduciarlo e obbligarlo a dimettersi, a differenza di ciò che accade nelle forme di governo parlamentari. L’esecutivo non ha alcun potere di condizionare il mandato parlamentare che dura sempre fino al termine.
Il modello di riferimento è oggi quello della Svizzera, la cui Assemblea Federale elegge il Consiglio federale, formato da sette componenti, e la carica presidenziale dura un anno ed è a rotazione. Si tratta perciò di una forma di governo a direzione collegiale. L’Assemblea deve eleggere il Consiglio in modo da rappresentare altrettanti diversi cantoni e per prassi i tre maggior gruppi linguistici, le principali confessioni religiose e i principali quattro o cinque partiti. La dinamica è quella della democrazia consociativa (concorrono insieme forze politiche dagli ideali e dai programmi assai diversi, a volte teoricamente non conciliabili, ma tutte invece coinvolte nella co-gestione del governo federale): proprio per questo si tratta di un modello non facilmente riproducibile laddove i partiti tendono a dividersi secondo una dinamica competitiva che prevede la periodica alternanza al governo.
- Altre tipologie
- forma di governo del primo ministro (o anche primo-ministeriale o premierato): ci si riferisce a forme di governo parlamentari nelle quali in via di diritto e in via di fatto la figura del primo ministro è particolarmente forte (perché ha potere di nomina e revoca dei ministri, perché è il solo titolare del rapporto fiduciario, perché ha il potere di indire elezioni anticipate, perché in altri termini ha poteri che gli consentono di determinare l’indirizzo politico del governo)
- forma di governo a premier direttamente elettivo: ci si riferisce pure a forme di governo parlamentari nelle quali però l’investitura del primo ministro avviene per via elettorale diretta. Questa ipotesi è più rigida della prima in quanto, si deve presumere, una sfiducia eventuale al primo ministro non può che comportare automatico scioglimento dell’assemblea.
Questi modelli sono tutti accomunati dall’essere tentativi di replicare il modello Westminster.
4. LA FORMA DI GOVERNO IN ITALIA: PROFILI STORICI
L'ordinamento statuario del Regno di Sardegna nacque nel 1848 con i caratteri giuridici della monarchia costituzionale: immediatamente, però, iniziò a svilupparsi in direzione del governo parlamentare. I presidenti del Consiglio giudicarono utile avvalersi del sostegno dell'assemblea elettiva per meglio perseguire il proprio indirizzo, se del caso anche contro le interferenze regie sempre in agguato; ma si resero anche conto che avrebbero potuto valersi della copertura regia per tenere a bada fazioni parlamentari all'epoca frammentate, rissose, quasi mai capaci di fornire un supporto continuo, fermo e affidabile.
Nei periodi di crisi la corona non mancò mai d'intervenire pesantemente e scelse presidenti del Consiglio fra i propri fedelissimi, per lo più militari; non solo, la corona non rinunciò mai a dire la sua sulle nomine dei ministri più importanti, nonché sulle nomine degli alti gradi militari e sulla politica estera. Fino all'avvento del fascismo, il regime italiano fu un governo parlamentare dualista che corrispondeva alle teorizzazioni del parlamentarismo in voga, come si è visto, a cavallo fra Ottocento e Novecento, quando si riteneva che dell'intervento regio non si potesse proprio fare a meno.
Questa visione dualista riemerse anche in sede costituente nel 1946-1947. Qui vi furono forze politiche, la maggioranza, convinte che la forma di governo dovesse orientarsi in senso marcatamente monista (elemento trainante rapporto governo-parlamento); ma anche altre che volevano fare del presidente della Repubblica la figura di riferimento in grado di sopperire, ove necessario, alle temute carenze del sistema partitico. Le seconde, pur minoritarie, pensavano a un dualismo ancora più accentuato e ottennero che al capo dello stato fossero attribuiti comunque poteri importanti. Siccome la controfirma sarebbe stata prevista per tutti gli atti parlamentari, si crearono premesse di un'ambiguità di fondo: si trattava di poteri sostanzialmente presidenziali (fautori del dualismo) o di poteri solo formalmente presidenziali (fautori del monismo)?
L'esperienza avrebbe insegnato, col tempo, che non si trattava di poteri trascurabili: in particolare, per quel che interessa qui, il potere di nomina del presidente del Consiglio e il potere di sciogliere le Camere, entrambi in grado di condizionare struttura e funzionamento del governo parlamentare.
- LA FORMA DI GOVERNO IN ITALIA: LA COSTITUZIONE E LA PRASSI
All'assemblea costituente era stato approvato, in sede di sottocommissione il 5 settembre 1946, un ordine del giorno presentato da Tommaso Perassi, giurista, col quale si compiva la scelta del governo parlamentare, ma si diceva anche che questo avrebbe dovuto essere integrato dal ricorso a strumenti giuridici che valessero a evitare le “degenerazioni del parlamentarismo”. Il testo della Costituzione risultò al riguardo particolarmente lacunoso, limitandosi all'essenziale: quasi fosse preciso intendimento del costituente affidare le scelte d'indirizzo al libero e mutevole dispiegarsi dei rapporti fra i partiti.
Quanto ai rapporti interorganici fra presidente del Consiglio, ministri e Consiglio dei ministri non vi è nessun elemento decisivo che conduca a qualche forma di gerarchizzazione a vantaggio del presidente del Consiglio. Si può dire che nella Costituzione e nella prassi la forma di governo italiana non è stata, e in parte tutt'ora non è, riconducibile alla tipologia del governo parlamentare a direzione monocratica. Unica eccezione fu il periodo del centrismo degasperiano (1948-1953) quando il presidente del Consiglio era anche il leader indiscusso del partito di maggioranza relativa.
Successivamente, per tutti gli anni di governo della Dc, era presidente del Consiglio il leader del partito di maggioranza. I governi furono sempre governi di coalizione o si fondavano su una maggioranza composita che raggiunse anche sei o sette gruppi diversi. Ciascun ministro rispondeva più al proprio partito e alla propria corrente che non al presidente del Consiglio, che raramente riusciva a garantire l'unità d'indirizzo. Ciò aveva ridotto la nostra forma di governo a un governo a direzione plurima dissociata.
Si trattava sempre di governi instabili (durata media 11 mesi). La classe di governo non mutava e gli equilibri partitici alla base della formazione dei governi erano sempre in discussione. Formato un governo i partiti, che lo sostenevano ma non s'identificavano in esso, si mettevano subito al lavoro per indebolirlo per sostituirlo con un altro rappresentativo di equilibri che si spostassero a proprio vantaggio.
Alla fine degli anni Ottanta, la mancanza di una direzione monocratica e l’instabilità cronica portarono il sistema istituzionale italiano al tracollo.
5. LA FORMA DI GOVERNO IN ITALIA: LE TRASFORMAZIONI
Superato il vincolo internazionale che comportava l’esigenza di impedire il prevalere in Italia di forze politiche troppo influenzate dall’Unione Sovietica, nuovi valori e nuove necessità si fecero sentire alla fine degli anni Ottanta, stimolati anche dalla crescente competitività fra sistemi-paese all’interno della Comunità Europea. Governabilità e stabilità cominciarono a essere percepite come condizioni indispensabili di sviluppo, difficilmente compatibili con il governo a direzione plurima dissociata di cui s’è parlato.
Si avviò un tentativo di riforma fondato sugli strumenti giuridici che si potevano rinvenire in Costituzione, usati, per così dire, ai limiti delle loro potenzialità. Si fece così ricorso alla strategia dei referendum popolari, per costringere il parlamento dei partiti a cambiare, partendo dalla regola base della politica nelle democrazie rappresentative: la formula elettorale.
Trasformando in maggioritario il sistema proporzionale su cui quella forma di governo si era fondata si pensava di poter perseguire più scopi:
- instaurare una competizione bipolare per permettere l’investitura popolare del governo;
- imporre un salutare ricambio di classe politica;
- porre fine al correntismo che minava dall’interno i partiti e ne complicava i reciproci rapporti;
- moralizzare la vita pubblica;
- semplificare il sistema di partiti.
Sia nel 1994, sia nel 1996 sia, ancor di più nel 2001 una maggioranza e un presidente del Consiglio emersero con sufficienza nitidezza di voto; così anche nel 2006 e nel 2008 con la legge elettorale nel frattempo nuovamente modificata, tornata nuovamente ad un sistema proporzionale. La logica della competizione politica è così diventata decisamente bipolare sia pure fra le resistenze mai del tutto superate.
Una somma di ulteriori fattori hanno concorso nel contempo a rafforzare la figura del presidente del Consiglio:
- il costante raffronto con gli altri ordinamenti simili al nostro;
- l’esigenza di dare all’azione di governo la necessaria continuità e stabilità di indirizzo;
- la legislazione sulla presidenza del Consiglio (la l. 400/1988);
- l’accentuarsi della personalizzazione delle campagne elettorali, culminata prima con l’inserimento dei candidati a presidente del Consiglio nei simboli delle coalizioni sulle schede, poi nell’indicazione formalmente prevista dalla l. 270/2005 del “capo della coalizione”;
- l’affermarsi alle elezioni, per ben tre volte (1994, 2001, 2008) di maggioranze guidate da un leader particolarmente influente, Silvio Berlusconi, riconosciuto capo indiscusso della coalizione di governo.
L’ordinamento italiano si è andato orientando, ai diversi livelli territoriali, con sufficiente coerenza verso governi di legislatura a direzione monocratica, fondati su coalizioni formate prima delle elezioni e legittimate direttamente dal voto.
- Riepilogo sviluppo:
governo parlamentare dualista -> governo parlamentare a direzione plurima dissociata -> governo parlamentare a direzione monocratica
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