CAP. 5 - LE FONTI DEL DIRITTO: CONCETTI GENERALI
- COSA SONO LE “FONTI” DEL DIRITTO
Ciascun ordinamento giuridico stabilisce la regole affinché determinate norme possano essere riconosciute come appartenenti all’ordinamento stesso.
- “Fonti del diritto”: i fatti o gli atti che l’ordinamento giuridico abilita a produrre norme giuridiche.
I requisiti delle norme giuridiche sono:
- la generalità: l’essere riferite a una pluralità indistinta di soggetti;
- l’astrattezza: il prevedere una regola ripetibile nel tempo a prescindere dal caso concreto.
Prevedere in via astratta sarà il compito del legislatore; provvedere in via concreta sarà compito dell’amministratore.
La teoria delle fonti del diritto di occupa sia di regole che individuano quali sono le fonti del diritto, sia le regole che stabiliscono i modi di produzione del diritto. Si distingue:
- le fonti di produzione del diritto: quei fatti (eventi naturali o anche comportamenti umani non volontari) o quegli atti (comportamenti umani volontari e consapevoli) ai quali l’ordinamento attribuisce la capacità di produrre imperativi che esso riconosce come propri.
- le fonti sulla produzione del diritto: le norme che disciplinano i modi di produzione del diritto oggettivo, individuando i soggetti titolari del potere normativo, i procedimenti di formazione, gli atti prodotti.
Quindi, sono fonti di produzione gli atti normativi posti nel rispetto delle norme sulla produzione.
Si distingue inoltre tra:
- fonti fatto, quando l’ordinamento riconosce direttamente al corpo sociale la capacità di produrre norme in via, per così dire, autonoma senza che siano seguite procedure particolari né che le norme stesse siano frutto di una ben individuabile ed espressa volontà. Contano i comportamenti umani assunti come fatti oggettivi;
- fonti atto, quando la norma è prodotta da un soggetto istituzionale portatore di una precisa volontà e nel rispetto delle procedure previste dalle fonti sulla produzione. Conta la volontà del soggetto istituzionale.
La consuetudine non si forma solo per la diuturnitas. A questo deve aggiungersi l’elemento soggettivo: elemento in base al quale coloro che attuano questo comportamento ad un certo punto ritengono di doverlo attuare sulla base di una norma giuridica.
Alle fonti di produzione è affidata, inoltre, la funzione di individuare i modi mediante i quale le norme prodotte devono o possono essere riportate a conoscenza dei destinatari. Si parla al riguardo di fonti di cognizione, ossia di atti che non hanno natura normativa ma svolgono unicamente la funzione di far conoscere il diritto oggettivo. Esistono strumenti che ci permetto di conoscere a titolo meramente informativo (un sito, il codice) e fonti di cognizione che hanno efficacia costitutiva delle norme giuridiche. Sopra tutte la Gazzetta ufficiale delle Repubblica italiana, dove è pubblicato il testo ufficiale delle regole. Non solo ci dà certezza testuale, ma ci dice quando è il giorno in cui una determinata regola entra in vigore (di solito 15 giorni dalla pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso).
È necessario perciò distinguere tra quelle che sono fonti di diritto, e quelle che fonti di diritto non sono. Con riferimento alle sole fonti l’ordinamento prevede:
- la pubblicazione in forma ufficiale;
- l’applicazione del principio iura novit curia (il giudice è tenuto a conoscere la legge) e del principio ignorantia legis non excusat (nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge);
- il ricorso in cassazione per violazione di legge contro le sentenze civili e penali (art. 111.7 Cost.);
- l’interpretazione e applicazione del diritto (art. 12 delle preleggi).
2. QUALI SOGGETTI CONCORRONO A PRODURRE DIRITTO
Il tema delle fonti del diritto implica una scelta relativa a quali soggetti debbano concorrere a introdurre nell’ordinamento norme giuridiche.
Nello stato liberale ottocentesco i processi di produzione normativa ruotavano intorno ai due soggetti che esprimevano il potere sovrano, il re e il parlamento. La fonte di produzione che esprimeva il più alto comando normativo era la legge del parlamento: la legge era chiamata perciò fonte primaria. Il governo del re doveva osservanza alla legge del parlamento e poteva esercitare un potere normativo più limitato nel rispetto e in esecuzione della legge, varando disposizione in forma di regolamento: chiamato fonte secondaria proprio perché non c’era spazio per regolamenti del governo contrari alla legge.
L’avvento dello stato liberaldemocratico ha operato una vera e propria rivoluzione in materia di fonti: la costituzione è atto supremo dell’ordinamento giuridico e dunque diventa superiore ad ogni altra fonte, in primis alla legge ordinaria. La costituzione rigida non solo ha assunto il monopolio dei processi di produzione del diritto ma ha determinato la moltiplicazione delle sedi e dei soggetti titolari di poteri normativi, sia a livello verticale (ordine gerarchico tra Costituzione, leggi costituzionali, leggi ordinarie ecc.) che a livello orizzontale (processi di produzione del diritto a competenza riservata). Ciò si verifica:
- in ragione al pluralismo istituzionale, attraverso l’attribuzione di poteri normativi agli enti territoriali che compongono l’articolazione interna della Repubblica (art. 114.1 Cost.);
- in ragione dell’apertura dell’ordinamento interno a quello internazionale che consentono l’ingresso nel nostro ordinamento di norma giuridiche prodotte in quello internazionale o sovranazionale (artt. 10-11 Cost.);
- in ragione del pluralismo sociale, come ad esempio nel caso dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica, che sono disciplinati sulla base di intese (art. 8 Cost.).
La moltiplicazione e la complicazione delle fonti del diritto rendono sia più stringente l’esigenza di assicurare coerenza sistematica dell’ordinamento giuridico sia insufficienti i tradizionali criteri per ordinare la complessità del sistema del fonti. Infatti al criterio cronologico e gerarchico, diventa indispensabile il criterio della competenza.
- LA COSTITUZIONE COME FONTE SULLE FONTI
La Costituzione, oltre ad essere fonte del diritto, è anche fonte suprema sulle fonti, nel senso che essa legittima tutti i processi di produzione del diritto. La Costituzione tuttavia non stabilisce direttamente tutti i processi di produzione del diritto, ma si limita a determinare solo quelli più importanti:
- quelli che permettono di produrre norme di rango costituzionale: le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali (art. 138 Cost.), le leggi di approvazione degli statuti delle regioni speciali (art. 116 Cost.);
- quelli che permettono di produrre norme di rango primario: leggi ordinari dello Stato (artt. 70 ss. e 117 Cost.), decreti legislativi e i decreti legge (artt. 76-77 Cost.), i regolamenti parlamentari (art. 64 Cost.), gli statuti delle regioni ordinarie (art. 123 Cost.), le leggi regionali (art. 117-121 Cost.).
Con riferimento a queste due categorie di atti normativi il sistema delle fonti deve considerarsi un sistema chiuso. Ciò significa tue cose:
- Non sono configurabili atti fonte primari al di là di quelli espressamente previsti dalla Costituzione stessa. La creazione di altri fonti primari richiederebbe una revisione costituzionale. La Costituzione si limita a stabilire la disciplina essenziale, all’interno della quale possono essere fissate regole ulteriori. Così, infatti, norme sulla produzione di atti primari sono contenute in altri atti fonte, i quali svolgono la funzione di integrare e completare gli spazi lasciasti aperti dalla dottrina costituzionale.
- Ciascun atto normativo non può disporre di una forza maggiore di quella che la Costituzione a esso attribuisce: un atto legislativo non potrebbe attribuire ad altri atti fonte una capacità pari alla propria di innovare il diritto oggettivo o di resistere all’abrogazione.
Agli atti fonte primari va riconosciuta forza di legge, cioè la capacità di impattare sull’ordinamento in cui sono inseriti. Questa nozione attiene alla forma dell’atto e non al suo contenuto perché qualsiasi norma giuridica è caratterizzata, se guardiamo il contenuto, generalità e astrattezza.
La Costituzione individua gli atti abilitati a produrre diritto oggettivo attribuendo a essi una determinata forza o efficacia formale. La forza o efficacia formale di un atto fonte comprende due profili:
- profilo attivo: cioè la capacità di innovare al diritto oggettivo subordinatamente alla Costituzione intesa come fonte suprema, abrogando o modificando atti fonte equiparati o subordinati
- profilo passivo: cioè la capacità di resistere all’abrogazione o modifica da parte di atti fonte che non siano dotati della medesima forza, in quanto espressione del medesimo processo di produzione normativa.
Il concetto di forza di legge presuppone che il sistema delle fonti sia ordinato gerarchicamente di modo che l’atto gerarchicamente superiore prevalga sull’atto gerarchicamente subordinato. Ciò, tuttavia, trova un limite in tutti quei casi in cui vi è dissociazione tra la forma tipica dell’atto e la forza a esso attribuito, per i quali il vige il criterio della competenza.
Invece, il sistema delle fonti secondarie è aperto. L’individuazione degli atti fonte secondati è lasciata alla disponibilità dei soggetti titolari di potestà normative primarie, sia pure nel rispetto dei limiti costituzionali esistenti, e del principio di legalità, in base al quale tutti gli atti secondati devono essere deliberati sulla basa di una previa norma di legge.
Come possiamo ordinare fonti di produzione di diritto dello stesso rango gerarchico? L’art. 117 Cost. sancisce che dipende dalle competenze (ad esempio, sia legge dello Stato sia della Regione sono fonti primarie; e allora come si ordiniamo? In separazione di competenza). A volte sono poste tra loro in maniera gerarchica, altre volte in separazione di competenza, altre volte sono in un regime di concorrenza (nel caso per esempio del rapporto tra legge ordinaria e decreto legislativo). Quindi si apprende che l’unico elemento in comune è solo il fatto che si trovano subito sotto la Costituzione.
- UNITÀ, COERENZA E COMPLETEZZA DELL’ORDINAMENTO
Ogni ordinamento è un sistema caratterizzato da unità, coerenza e completezza. La pluralità delle fonti del diritto richiedono, quindi, che siano predeterminati dei criteri attraverso i quali l’ordinamento possa mantenere queste sue caratteristiche.
- Unità significa che tutte le norme possono farsi risalire al potere costituente, cioè al momento fondante dell’ordinamento e all’atto che con esso viene posto, la Costituzione.
- Coerenza significa che l’ordinamento non tollera contraddizioni tra le parte, quelle che in linguaggio giuridico si chiamano antinomie. Chiaramente siamo davanti ad un’antinomia quando nel caso di due norme un medesimo comportamento prevede l’osservanza dell’una e contemporaneamente l’inosservanza dell’altra. Ciascun ordinamento prevede meccanismi per risolvere le antinomie per consentire all’interprete di sciogliere individuando la norma.
- Completezza significa assenza di lacune o vuoti normativi: l’ordinamento predispone determinati rimedi per colmarli cosicché, anche quando sembra mancare qualsiasi disciplina giuridica, l’interprete possa rinvenire la norma applicabile al caso concreto.
- I CRITERI PER ORDINARE LE FONTI DEL DIRITTO
I criteri per ordinare le norme giuridiche prodotte dalle fonti del diritto di traggono direttamente dalla Costituzione e da talune disposizione contenute nelle preleggi al codice civile del 1942. Queste, nonostante il mutato contesto costituzionale, possono considerarsi ancora in vigore, in quanto espressive di principi di carattere generale. La risoluzione delle antinomia è un’operazione essenzialmente pratica in quanto viene eseguita non in sede di produzione del diritto, ma in sede di applicazione. I criteri sono:
- il criterio cronologico;
- il criterio gerarchico;
- il criterio della competenza.
- Il criterio cronologico
Il criterio cronologico regola la successione degli atti normativi nel tempo: in caso di contrasto tra norme stabilite da fonti aventi il medesimo rango gerarchico e la medesima competenza ossia da fonti equiparate, prevale e deve essere applicata quella posta successivamente nel tempo (lex posterior derogat priori). Ciò corrisponde ad un principio intrinseco del diritto moderno per il quale le decisione più recenti in ordine di tempo devono prevalere su quelle prese in passato. In base al criterio cronologico, la norma precedente nel tempo è abrogata da quella successiva: l’abrogazione deriva dall’applicazione di tale criterio.
Gli atti normativi entrano in vigore e iniziano a produrre la propria efficacia, diventando obbligatori per tutti e suscettibili di applicazione in concreto. Essi, una volta vigenti, valgono di norma solo per il futuro, ossia per i fatti e i rapporti sorti successivamente alla loro entrata in vigore: non hanno cioè, di regola, efficacia retroattiva. Il divieto di retroattività è stabilito nell’art. 11 delle preleggi al codice civile del 1942. La retroattività della legge non è mai assoluta, in quanto essa riguarda non tutti i rapporti del passato ma solo i rapporti pendenti, ossia suscettibili di essere ancora regolati, a differenza dei rapporti esauriti, ossia insuscettibili di ulteriore regolazione. Il limite alla retroattività della legge si giustifica per garantire i diritti quesiti, cioè le situazioni che, perfezionatesi sulla base di una determinata disciplina, non possono essere messe in discussione da una legge successiva. Il divieto di retroattività, invece, è assoluto e inderogabile per le leggi in materia penale (art. 25.2 Cost.)
Gli atti normativi cessano di essere a seguito dell’abrogazione da parte di successivi atti equiparati. L’effetto abrogativo non elimina la norma precedente, bensì circoscrive nel tempo l’efficacia dell’atto normativo abrogato, limitandola a tutti i fatti sorti dalla data di entra in vigore a quella della sua abrogazione. Distinta dall’abrogazione è la deroga, che si ha allorché si mantiene una disciplina, ma se ne circoscrive l’efficacia nel tempo, nello spazio o nei destinatari.
Secondo l’art. 15 delle preleggi, l’abrogazione può essere di tre tipi:
- abrogazione espressa: è disposta direttamente dal legislatore quando nel testo di una legge vengono indicate le disposizione preesistenti specificamente abrogate; l’interprete non dovrà altro che prendere atto dell’abrogazione;
- abrogazione per incompatibilità (o abrogazione tacita): non è disposta direttamente dal legislatore, ma viene accertata per via interpretativa quando l’interprete rileva il contrasto tra due norme dal contenuto incompatibile
- abrogazione per nuova disciplina dell’intera materia: è regolata da una legge anteriore, per cui la nuova disciplina di sostituisce alla precedente.
- Il criterio gerarchico
Quando l’antinomia concerne norme poste da fonti non equiparate non si può fare ricorso al criterio cronologico, ma deve applicarsi il criterio della gerarchia: prevale la norma posta dalla fonte superiore o sovraordinata. Il fattore tempo qui è irrilevante: anche se una norma subordinata è più recente e la norma sovraordinata è più risalente nel tempo, prevale quest’ultimo.
L’effetto del criterio gerarchico non è l’abrogazione, ma l’annullamento: la norma sottordinata, sulla quale prevarrà la norma sovraordinata gerarchicamente, non è abrogata, ma è invalida, ossia viziata per non aver rispettato l’ordine gerarchico delle fonti.
L’invalidità, a differenza dell’abrogazione, determina l'eliminazione dall’ordinamento dell’atto e la caducazione di ogni sua efficacia, non solo quella pro futuro ma anche quella prodotta nel passato (pro preterito).
Una legge è resa invalida solo e nel momento in cui la Corte costituzionale si pronuncia, ma prima che essa dichiari la sua incostituzionalità si presenta un lasso di tempo in cui una legge, se pur invalida, risulta efficace. L'annullamento è un atto che consegue da una specifica pronuncia di un organo preciso. Nel eventualità in cui una fonte secondaria contrasta con una fonte primaria la fonte secondaria verrà annullata, solo però quando, in questo caso, il giudice amministrativo si pronuncia per la sua invalidazione. In tal caso è necessario la sentenza del giudice amministrativo e non della Corte costituzionale. Tuttavia se il dato di contrasto sorge ad un giudice ordinario (penale o civile), egli non potrà annullare la norma. L’unica cosa che potrà fare sarà quella di disapplicare la norma applicando il principio di preferenza di legge (ad esempio, se nota una contrasto tra legge e regolamento, farà prevalere la legge sul regolamento e risulterà disapplicato solo, però, nella controversia che sta giudicando, ma non nell’ordinamento giuridico, nel quale il regolamento rimane attivo).
L’annullamento ha effetti parzialmente retroattivi. Come detto, esso ha un’efficacia pro futuro ma anche parzialmente pro preterito. Dopo aver annullato una norma, poiché incostituzionale, si vorrà ristabilire la gerarchia nel modo più estremo al fine di “eliminare ogni traccia della vecchia disciplina”. Con l’abrogazione si ha una successione di leggi che si modificano nel tempo, ma se si parla di annullamento si presume che il codice genetico di una legge sia in contrasto con la Costituzione, che non avrebbe dovuto essere mai adottata e quindi annullandola la Corte cercherà di estendere al massimo gli effetti dell’annullamento. Cosa vuol dire parzialmente? Se un rapporto è esaurito, gli effetti di questo annullamento non metteranno in discussione il vecchio rapporto. L’annullamento vale solo sui rapporti pendenti (ad esempio, un contratto ancora in esecuzione) e dei rapporti passati in giudicato.
L’unica eccezione riguardo i rapporti passati in giudicato sono quelli in materia penale: se un soggetto sta scontando una pena carceraria, sancita da una norma penale che è stata annullata, se il giudizio è ancora pendente, il soggetto potrà impugnare la causa. Tuttavia, anche se il suo caso è passato in giudicato, egli, non appena viene dichiarata invalida la norma per cui è stato incarcerato, deve essere scarcerato subito. Vale, per cui, il principio di favor liberatatis: tra limitare le libertà e estenderle, lo Stato, fondato su principi liberal-democratici, favorirà maggiore libertà.
- Il criterio della competenza
Quando le fonti, rigorosamente non equiparate, sono ordinate dalla Costituzione secondo differente competenza, riferita o alla dimensione territoriale nell’ambito nella quale la fonte è destinata ad operare, o alla materia. In questi casi opera il criterio di competenza e si risolvono le antinomie dando applicazione alla norma posta dalla fonte competente a disciplinare la fattispecie concreta con esclusione di qualsiasi altro atto fonte. Il rapporto tra norme contrastanti è un rapporto tra norma valida e norma invalida, sicché la norma non competente è una norma invalida, che eccede la competenza riservatagli dalla Costituzione; dunque essa deve essere eliminata dall’ordinamento mediante annullamento, come nel caso del criterio gerarchico. L’art. 64 e 117 Cost. rappresentano un esempio chiaro di fonti atto nei cui confronti la Costituzione stabilisce una riserva di competenza, ossia la disciplina di certe materie con esclusione di altre fonti.
Il principio generale di irretroattività della legge
Il principio generale di irretroattività della legge stabilisce che nessuna regola debba avere effetto sul passato. Nell'ordinamento giuridico italiano il principio di irretroattività è contenuto nell'art. 11 delle preleggi al codice civile del 1942: "La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo.". Le nuove leggi entrano in vigore con efficacia ex nunc. Tutti gli eventi e i fatti rientranti nella fattispecie regolata dalla norma ma verificatisi prima della sua entrata in vigore non sono regolati dalla norma stessa.
Come abbiamo appena visto nell'ordinamento giuridico italiano il principio di irretroattività della legge è disciplinato dall'art. 11 delle "Disposizioni sulla legge in generale" del codice civile, ossia da una legge ordinaria. Il principio di irretroattività, quindi, può essere modificato da norme giuridiche di pari grado, le quali possono introdurre eccezioni alla regola. Pertanto potrebbe essere introdotta la retroattività. L’eventualità esiste, come chiarisce la Corte costituzionale, a riguardo delle legge di interpretazione autentica: il legislatore, qualora si accorgesse che una precedente disposizione non fosse chiara, può promulgare una legge che chiarisca il significato della disposizione per evitare interpretazione normative errate. Essa avrà efficacia retroattiva.
ll principio di irretroattività della legge è invece stabilito in assoluto, senza possibilità di deroghe, nell'ambito del codice penale. È la stessa Costituzione della Repubblica Italiana a disciplinare la fattispecie nell'art. 25,2 Cost. (unica apparizione in Costituzione del principio di retroattività della legge, chiarito nel codice civile). In conclusione, la Costituzione garantisce che non vengano considerati reati penali quei fatti che al momento del loro compimento non erano vietati dalla legge. Essendo la norma costituzionale una regola di grado superiore alle norme ordinarie non può essere modificata o disciplinata diversamente da queste ultime.
- FOCUS 5.1 - Legittima la retroattività ma a certe condizione
La Corte costituzionale ha ritenuto di porre alcuni limiti alla possibilità per il legislatore di approvare disposizione retroattive. Tra questi: il rispetto del principio di ragionevolezza, di eguaglianza, la tutela dell’affidamento di situazioni giuridiche legittimamente sorto nei soggetti, la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico. Secondo la Corte, la retroattività è ammessa purché “trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare i principi, diritti e beni di rilievo costituzionale”. Al tempo stesso le disposizioni retroattive non possono porsi in contrasto con le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
- FOCUS 5.2 - Gli effetti dell’abrogazione
L’abrogazione non estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la sfera materia di efficacia, e quindi l’applicabilità, ai fatti verificatisi sino a un certo momento del tempo, che solitamente coincide con l’entrata in vigore di questa. Vi è solo un caso in cui l’ordinamento prevede la cancellazione dell’efficacia di una disposizione con effetti ex nunc: la decadenza di un decreto legge per mancata conversione in legge.
Una norma abrogata deve continuare a svolgere i propri effetti sui rapporti pregressi (pendenti o esauriti) maturatisi in data anteriore all’entrata in vigore della legge abrogativa: fino al punto da raggiungere, in materia penale, all’obbligo di applicazione della norma anteriore, pur abrogata, se favorevole al reo. Nella stessa materia coesisteranno, quindi, due complessi normativi, quello originario della disposizione abrogata e quello vigente pro futuro.
Solo impropriamente possiamo parlare di abrogazione davanti alla cosiddetta abrogazione tacita, in quanto essa si determina quando si verifica una incompatibilità tra le nuove norme e quelle ricavabili da precedenti disposizioni. È abrogazione tacita anche se il legislatore stabilisce con la sbrigativa formulare “sono abrogate tutte le norme incompatibili con la presente legge”.
Possono ritenersi un criterio per la risoluzione della antinomie anche le cosiddette “clausole di abrogazione espressa”. Con questa espressione si fa riferimento ai casi in cui è la legge stessa a disporre che la disciplina in essa contenuto non possa essere abrogata, derogata o comunque modificata se non in modo appunto espresso, cioè indicando esplicitamente le disposizione da abrogare, derogare o modificare. Lo scopo di tali clausole e di razionalizzare e stabilizzare i processi di produzione del diritto in una stessa materia. Delle clausole di abrogazione espressa, però, deve essere valutata l’efficacia giuridica perché non possono alterare la pari ordinazione gerarchica delle leggi.
- FOCUS 5.3 - Invalidità degli atti normativi
Un atto normativo è valido allorché sia conforme alle norme che ne disciplinano la formazione (validità formale) o ne vincolano il contenuto (validità materiale). È valido se ha rispettato le norme sulla produzione giuridica delle fonti, se ha rispettato i limiti della propria competenza e se dalle sue disposizioni non si traggono norme in contrasto con le altre norme gerarchicamente sovraordinate. Mentre l’abrogazione consegue all’esercizio della funzione normativa, la sua caducazione consegue a una dichiarazione di annullamento ed è l’effetto di una sentenza: la prima opera ex nunc (cioè al momento della sua entrata in vigore); la seconda opera invece ex tunc, facendo salvi soli rapporti esauriti e le sentenze passate in giudicato.
L’invalidità di un atto normativo consegue alla violazione di una norma di grado superiore o all’invasione di un terreno riservato ad un’altra fonte, ma essa può anche determinarsi per contrasto fra le norme di pari grado gerarchico. È il caso, ad esempio, di un decreto delegato che contenga disposizioni in violazione della legge delegante. Si parla di incostituzionalità per norma interposta: l’incostituzionalità è conseguente al contrasto non già con una norma costituzionale, ma con un’altra norma cui la Costituzione fa espresso rinvio.
Un’altra categoria che non si inquadra facilmente negli schemi classici e la non applicazione del diritto interno in caso di contrasto fra una norma italiana e una norma dell’Unione Europea direttamente applicabile.
- L’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO
L’applicazione del diritto presuppone un’attività interpretativa che miri alla ricostruzione del significato, partendo dal testo degli atti normativi. I criteri che regolano l’interpretazione del diritto sono indicati dall’art. 12 delle preleggi e sono:
- interpretazione letterale o testuale, ossia secondo il senso “fatto palese dal significato proprio della parola secondo la connessione tra esse”;
- interpretazione teleologica, ossia il fine e l’intenzione del legislatore che può essere soggettiva (perseguita dal legislatore al tempo in cui ha posto una determinata disciplina) o oggettiva (ricavata dal tenore dell’atto normativo);
- interpretazione logico-sistematica, ossia secondo la connessione tra le diverse disposizione all’interno dell’atto normativo considerato, collocate nel contesto dell’ordinamento complessivo.
Nell’art. 12 delle preleggi si fa poi riferimento all’interpretazione analogica come rimedio per colmare lacune o vuoti normativi rilevanti che richiedono una soluzione giuridica. In tal caso, si adotta lo strumento dell’analogia, che consiste nell’applicare a un casi non previsto una disciplina prevista per casi simili. Si distinguono due tecniche:
- nel caso in cui la lacuna può essere colmata rinviando alla disciplina detta per un caso simile o per materie analogie, si ricorre all’analogia legis (es. ricorrere al codice marittimo per stilare un codice aereo);
- nel caso in cui manchino norme che regolino casi simili, si ricorre all’analogia iuris, ovvero facendo riferimento ai principi generali dell’ordinamento, ricavabili per via interpretativa dal complesso delle norme giuridiche vigenti.
L’art. 14 delle preleggi prevede il divieto di analogia per le leggi penali e le leggi speciali (che non possiedono il carattere di generalità tipico della legge).
Per le disposizione della Costituzione che prevedono diritti fondamentali vale il criterio di stretta interpretazione: in caso dubbio, l’interprete non può attribuire alle disposizione costituzionali un significato in alcun modo restrittivo o lesivo dei diritti fondamentali da esse previsti (favor liberatatis).
Un altro aspetto rilevante consta nel fatto che la pluralità degli interpreti del diritto porta chiaramente a varie interpretazioni, spesso discordanti. Nel nostro ordinamento esistono due organi ai quali ricondurre importanti questioni interpretative della legge: la Corte di cassazione e la Corte costituzionale (vedremo in seguito).
Dobbiamo, infine, distinguere l’interpretazione autentica, ossia l’interpretazione effettuata con legge dal legislatore stesso. Le leggi d’interpretazione autentica sono naturalmente leggi retroattive, dato che il significato stabilito dal legislatore riguarda disposizioni già in vigore; dal momento dell’entra in vigore della legge di interpretazione autentica, l’interprete deve applicare la legge secondo il senso prescritto dal legislatore. Parte della dottrina ritiene che l’interpretazione autentica non sia interpretazione del diritto ma produzione di nuovo diritto. La Corte costituzionale si discosta da questa ipotesi e dichiara incostituzionali quelle leggi di interpretazione autentica che anziché interpretare, in realtà, innovano.
- FOCUS 5.4 - Interpretazione, applicazione, attuazione, integrazione del diritto
Occorre fare distinzione tra:
- Interpretazione del diritto: è quell’operazione che ha per oggetto una disposizione Apple finalità di individuazione del suo significato
- Applicazione del diritto: parte da norme già individuate in sede interpretativa per capire se queste ultime si applichino alla soluzione di un caso concreto; implica non solo la conoscenza delle norme, ma anche l’esame dei fatti.
- Attuazione del diritto: non ha a che fare con norme di cui contenuto si presti a disciplinare direttamente univocamente un comportamento umano, ma con norme dal contenuto “programmatico” o “di principio”, e perciò suscettibili non già di un’unica concretizzazione, bensì di una pluralità di possibili sviluppi. È per questo che si parla di attuare, e non di applicare, il diritto, per mettere in evidenza l’aspetto discrezionale della scelta fra più opzioni.
- Integrazione del diritto: l’integrazione del diritto presuppone a) la conoscenza delle norme dell’ordinamento estratte dalle disposizioni che lo compongono b) l’esame di un determinato caso c) la constatazione che nessuna norma individuate in sede interpretativa lo disciplina direttamente e infine, d) la conclusione che tale assenza di disciplina giuridica costituisca una lacuna, vale a dire una carenza dell’ordinamento che debba essere in qualche modo colmata.
- FOCUS 5.5 - La struttura delle norme giuridiche
Le modalità di prescrizione di una disposizione sono riconducibili a una medesima struttura formale. Ciascuna norma può essere concettualmente scomposta in una parte chiamata fattispecie (F) in una arte chiamata conseguenza (C), componendo così lo schema “se F, allora C”.
La fattispecie descrive gli elementi astratti al concreto verificarsi dei quali deriva la conseguenza, ossia scatta la prescrizione. Così la fattispecie concreta (le caratteristiche specifiche del singolo caso) vieni a riconnettersi con la fattispecie astratta (le caratteristiche descritte in generale dalla norma) e si dice che viene in questa “sussunta”.
Le norme possono risultare formulate in modi diversi:
- La redazione tassativa è più attenta alle esigenze di prevedibilità e certezza del diritto, è per questo tipica delle norme penali; si esprime con fattispecie e conseguenze “chiuse”, ossia predeterminate in ogni loro loro elemento.
- La relazione a fattispecie aperta è più funzionale alle esigenze di adattabilità dell’ordinamento ai diversi casi della vita e all’evolversi della “coscienza sociale”. Si esprime con fattispecie e conseguenze “aperte”, ossia suscettibili di integrazione e completamento da parte dell’interprete al momento di applicare la norma in relazione alle circostanze del caso concreto.
- Costituiscono altresì una tecnica di redazione fattispecie aperta le clausole generali (“buon costume”, “utilità sociale”, “buona fede”, “ordine pubblico”): formule linguistiche le quali rinviano anche a dati extragiuridici, cioè a valori esterni all’ordinamento giuridico, da esso non espressamente definiti ma riconosciuti come rilevanti al fine di determinare il contenuto delle norme di volta in volta applicabili.
Le clausole generali non vanno confuse con i principi generali. I principi sono vere e proprie norme, le clausole sono strumenti affidati all’interprete per la ricerca di norme. Clausole generali e principi generali possiedono una struttura a fattispecie aperta. Ciò porta a valorizzare un circolo ermeneutico, rendendo meno stringenti il classico sillogismo giuridico. Si valorizza cioè il rapporto fra norme e casi mirando rassicurare la giustizia del caso concreto e ricercando, più che l’esatta interpretazione della disposizione, quella più adeguata al caso da risolvere.
È inoltre possibile distinguere le clausole generali dei concetti giuridici indeterminati. Mentre le prime possono essere indeterminate sul sul piano dei valori, i secondi lo sono sul piano linguistico, in ragione dell’impossibilità pratica di esprimere compiutamente una puntuale fattispecie normativa (es. l’art. 13 Cost. “né qualsiasi altra restrizione”).
Un’altra fondamentale distinzione è quella tra regole e principi.
- Le regole, enunciato disposizioni certe nel significato prescrittivo, implicano l’applicazione, ovvero la violazione delle relativo precetto tertium non datur.
- I principi, in genere formulati mediante disposizioni a fattispecie aperta o addirittura privi di disposizione perché impliciti nell’ordinamento, consentono differenti modalità applicative.
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