CAP. 14 - I GOVERNI REGIONALI E LOCALI
1. LE ORIGINI ACCENTRATE DELLO STATO ITALIANO
L’ordinamento italiano fu alle origini fortemente accentrato. Il modello era quello napoleonico (accentramento e uniformità erano alla base del potere politico-amministrativo della Francia napoleonica).
L’Unità d’Italia si era fondata sull’alleanza tra corona e borghesia liberale e il successivo riconoscimento dello Statuto del Regno di Sardegna come statuto del nuovo stato. Vennero quindi accantonati i progetti che volevano sviluppare, attraverso la creazione di regioni, forme di governo locale (vista l’antitesi dello stato unitario con quella precedente di un’Italia frammentata). Per decenni i prefetti, rappresentanti nelle provincie del governo nazionale furono le autorità chiave sul territorio: garantivano l’ordine, preparavano le elezioni politiche, controllavano le amministrazioni locali e garantivano il successo dei canditati governativi.
Le cose iniziarono a mutare solo con il nuovo secolo, quanto gli enti locali iniziarono a farsi carico dei servizi pubblici locali. La prima legislazione organica comunale e provinciale fu quella del 1865, e fu modificata in misura rilevante col testo unico del 1915; la successiva fu quella del 1934, e fu una delle leggi fondamentali del fascismo. Con essa l’accentramento statalista raggiunse il suo massimo sviluppo (abolizione dei sindaci e istituzione dei potestà, eletti dalla prefettura e non più dai cittadini). Era ammissibile un solo indirizzo politico unificante, quello dettato dal governo nazionale; gli enti locali vennero chiamati enti autarchici (dovevano limitarsi alla cura degli interessi della loro comunità all’interno di quell’unico indirizzo politico).
Alla Costituente la discussione sull’ordinamento regionale fu assai accanita. Le forze politiche erano separate. La scelta di un ampio pluralismo istituzionale non era condiviso da coloro che temevano che le profonde riforme economico-sociali che intendevano realizzare sarebbero state ostacolate dall’esistenza di enti territoriali di ampia dimensione, dotati di attribuzioni rilevanti, costituzionalmente titolari di un potere d’indirizzo politico, magari diverso, e nel rispetto della Costituzione contrastante a quello centrale.
Alla fine fra molte cautele, con espressa esclusione di ogni impostazione federalista, furono previste le regioni. Queste non avrebbero dovuto essere semplici enti amministrativi dotati di autonomia bensì qualcosa di più, vale a dire dotati di poteri legislativi. Il modello era lo stato regionale, previsto per la prima volta nella Costituzione della II Repubblica spagnola (1931), modello ritenuto intermedio tra stato accentrato e stato federale.
Questa scelta era stata preceduta dal varo di uno statuto speciale per la regione Sicilia per fronteggiare alcuni moti separatisti con morti e feriti tra il 1944 e il 1946. L’accordo internazionale tra Italia e Austria impegnava l’Italia a dare vita a uno statuto di autonomia per le popolazione dell’Alto Adige/Südtirol: lo statuto della Regione Trentino-Alto Adige. A queste due regioni si aggiunsero poi la Sardegna, dove pure si erano manifestate aspirazioni autonomiste e la Valle d’Aosta (in parte francofona) e, successivamente alla risoluzione della questione di Trieste, il Friuli-Venezia Giulia.
Il titolo V della Costituzione (artt. 114-133) è quello dedicato alle regioni a statuto ordinario: mentre l’art. 116 rinvia per le regioni citate ai singoli statuti speciali approvati con legge costituzionale.
Fondamento, su cui poggia anche la riforma del titolo V, rimane l’art. 5 che prevede la Repubblica italiana come “una e indivisibile”.
- LA SCELTA DEL COSTITUENTE NEL 1948 E LA LENTA ATTUAZIONE DELL’ORDINAMENTO REGIONALE
Dopo aver superato l'ordinamento di eliminare le province (a quel punto le regioni avrebbero formato un numero elevatissimo di dimensioni quasi provinciali), i costituenti hanno deciso di ripartire la Repubblica in “regioni, provincie e comuni” (art. 114) quindi disciplinava prima di tutte le regioni (art. 115-127): la disciplina dei comuni era rimandata alla legge ordinaria mentre quella delle regioni era fissata direttamente in Costituzione, e in parte limitata agli statuti ordinari delle singole regioni, alle sole quali era riservata una competenza legislativa. Caratteristica di questa competenza per le regioni ordinarie fu di essere solo concorrente e limitata a un numero ristretto di materie elencate nell’art. 117: in tutta una serie di materie la regione avrebbe potuto legiferare, ma tenendosi all’interno del quadro tracciato dalle leggi cornice dello Stato, cui spettava il compito di stabilire i principi fondamentali della materia. Vennero posti ulteriori limiti: l’interesse nazionale e quello di altre regioni, che la legge regionale in nessun caso avrebbe potuto ledere, oltre al limite territoriale.
Per assicurare l’osservanza di questi limiti fu previsto il visto governativo preventivo su ogni legge regionale, con facoltà di rinvio al consiglio regionale per eccesso di competenza della regione o per contrasto con gli interessi nazionali o di altre regioni (art. 127): il consiglio regionale poteva riapprovarla ma era necessaria la maggioranza assoluta. Tale riapprovazione dava al governo la possibilità di promuovere questione di legittimità costituzionale ovvero questione di merito davanti alle camere. La Corte costituzionale modificò il limite di merito dell’interesse nazionale in un limite di legittimità. Si affermò per di più un altrettanto invadente potere statale di indirizzo e coordinamento, in relazione all’esercizio da parte delle regioni delle funzioni amministrative. La Costituzione del 1948 dava le seguenti disposizioni:
- alle regioni furono attribuite tutte le funzioni amministrative relative alle materie sulle quali avevano competenza legislativa, secondo il criterio del parallelismo delle funzioni;
- la regione avrebbe dovuto esercitare le proprie funzioni amministrative derogandole a provincie e comuni o avvalendosi del loro uffici;
- alle regioni fu riconosciuta autonomia finanziaria, ma nelle forme e nei limiti prestabiliti dalle leggi della Repubblica;
- fu fatto espresso divieto alle regioni di ostacolare la mobilità di persone e cose e di limitare i cittadini di lavorare dovunque;
- fu riconosciuta a ciascuna regione autonomia statutaria sulla propria organizzazione interna (lo statuto doveva essere approvato con legge dello Stato);
- fu istituito un commissario del Governo con compiti di coordinamento fra amministrazione regionale e statale, nonché di trasmissione delle leggi approvate;
- gli atti amministrativi regionali furono sottoposti a controllo di legittimità da parte di un organo dello Stato;
- si previdero una serie di casi in cui il consiglio regionale poteva a essere disciolto con decreto del presiedente della Repubblica su deliberazione dl Consiglio dei ministri.
Quanto a comuni e provincie, la Costituzione rimandava a leggi generali della Repubblica: l’ordinamento di comuni e province non sarebbe stato disciplinato dalla legge regionale, ma appunto dalla legge statale.
L’istituzione delle regioni ordinarie avvenne con molto ritardo solo nel 1970, oltre ventidue anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Il contesto politico dei primi anni Settanta favorì una grande uniformità nella predisposizione degli statuti regionali all’insegna di un’interpretazione a tendenza assembleare della forma di governo, secondo le linee generali stabilite in costituzione.
Dagli anni Novanta si sono verificate grandi trasformazioni che hanno profondamente innovato l’intero sistema delle autonomie regionali e locali. Gli elementi più importanti sono:
- l’ordinamento delle autonomie locali (l. 142/1990), il primo in epoca repubblicana, in base al quale comuni e provincie poterono darsi propri statuti, seguito dalla legislazione elettorale comunale e provinciale (l. 81/1993) che introdusse l’elezione diretta dei sindaci e presidenti delle provincie, fino, nel 2000, al testo unico sull’ordinamento degli enti locali che abrogò definitivamente il precedente testo unico del 1934;
- le leggi di conferimento di funzioni statali e regioni, provincie e comuni e la riforma dei controlli sugli atti amministrativi regionali e locali;
- le riforme della finanza regionale e locale che ridussero o soppressero i trasferimenti del bilancio dello Stato;
- la l. cost. 1/19999 di modifica di alcuni articoli del titolo V della Costituzione, sulla forma di governo delle regioni ordinarie che introdusse l’elezione diretta del presidente della Regione;
- la l. cost. 3/2001 che modificò, in profondità il titolo V della Costituzione nella parte relativa alle competenze di Stato, regioni ed enti locali;
- le deleghe al governo in materia di federalismo fiscale (l. 42/2009) volte a dare piena attuazione all’autonomia finanziaria di regioni ed enti locali;
- il complessivo e ancora non completato riordino territoriale e organizzativo degli enti locali, attraverso vari interventi normativi date dalla necessità di razionalizzare le risorse disponibili.
- I CARATTERI DELL’ORDINAMENTO REGIONALE: UNA PREMESSA
Dopo le riforme costituzionali, ogni regione costituisce un ordinamento a se. La differenziazione tra regione non riguarda solo la tradizionale distinzione tra regioni speciali e regioni ordinarie, ma anche quelle delle regioni ordinarie fra loro: in alcune materie l’art. 116.3 Cost. prevede, con norma fin qui inattuata, che una speciale legge del Parlamento possa attribuire a una regione ordinaria forme e condizioni ulteriori di autonomia.
L’assetto delineato, al di là del linguaggio corrente, non può dirsi federale; nell’ordinamento italiano le regioni infatti sono nate per decisione della Costituzione (uno stato federale nasce per l’aggregazione di più stati)
Vari elementi sono nel senso di un ampio riconoscimento di competenze alle regioni, in alcuni casi non minore delle competenze riconosciute a stati membri di uno stato federale (inversione dell’ordine di competenze fra Stato e regioni; assenza di controlli preventivi sulla formazione degli statuti; riconoscimento alle singole regioni della possibilità di darsi una propria forma di governo).
4. L’ORDINAMENTO DELLE REGIONI A STATUTO ORDINARIO
La potestà statutaria delle regioni ordinarie è stata rafforzata dalla riforma del 1999.
- Contenuti: lo statuto disciplina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento della ragione nonché l’esercizio del diritto di iniziativa popolare, i referendum, le modalità di pubblicazione di leggi regolamenti. Gli statuti adottati dopo la riforma hanno tutti previsto valori e diritti in qualche modo espressione della comunità regionale di riferimento.
- Procedimento: l’art. 123 Cost. prevede che lo statuto sia approvato dal consiglio regionale con voto a maggioranza assoluta, in due successive deliberazioni ad almeno due mesi di distanza la seconda dalla prima. Sempre dalla prima pubblicazione notiziale decorre il termine di tre mesi durante i quali un quinto dei componenti del consiglio regionale o un cinquantesimo degli elettori della regione possono chiedere che lo statuto approvato sia sottoposto a referendum. Richiesto il referendum, affinché la legge regionale di approvazione dello statuto sia promulgata, occorre che si pronunci a favore la maggioranza dei voti validi. Per quanto riguarda l’oggetto del quesito referendario, la Corte costituzionale ha stabilito che deve riguardare l’intero testo statutario e non singole parti (sent. 445/2005).
- Vincoli che lo statuto deve rispettare: accanto a quelli relativi ai suoi contenuti specifici, l’art. 123 indica il limite generale dell’armonia con la Costituzione, espressione la cui interpretazione fa discutere. Si vuole fare riferimento a quei valori costituzionali – in primis l’unità politica della Repubblica.
- Organizzazioni e funzionamento della regione: lo statuto incontra una serie di vincoli costituzionali che fanno sì che la singola regione debbo muoversi entro binari in parte già tracciati. Gli organi regionali che non possono mancare sono: a) consiglio regionale; b) giunta; 3) presidente della giunta; 4) consiglio delle autonomie locali. La posizione di vertice monocratico del presidente è sottolineata dal fatto che la Costituzione ne prevede l’elezione a suffragio universale diretto, corredata dall’importante potere di nomina e revoca dei membri della giunta. La giunta regionale è, dunque un organo collegiale, con un vertice espresso direttamente dai cittadini elettori.
La Costituzione (art. 122.5) permette allo statuto di compiere anche diverse scelte: ad esempio, il corpo elettorale elegge il consiglio regionale che a sia volta elegge il presidente della giunta (modello in deroga). In ogni caso si impone che i consiglio abbia sempre la potestà di sfiduciare il presidente della giunta. Se il presidente è direttamente eletto, quale che sia la causa di cessazione del suo incarico, ivi compresa dunque la sfiducia consiliare, il consiglio viene sciolto, mentre se il presidente è eletto non dai cittadini ma dal consiglio, questo può eleggerne uno diverso in corso di mandato.
La regione è competente in materia elettorale, pur nei limiti dei principi fondamentali della legge dello Stato (art. 121 Cost.). La legge statale di principio è la l. 165/2004: essa impone alla regione di dotarsi di un sistema elettorale che agevoli formazione di stabili maggioranze, assicurando altresì la rappresentanza delle minoranze; detta le norme quadro sui casi di ineleggibilità e incompatibilità del presidente e degli altri componenti della giunta e dei consiglieri regionali.
5. LA RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE LEGISLATIVE
5.1 Le competenze legislative nell’art. 117
È l’art. 117 Cost. a disciplinare la potestà legislativa, non più solo delle regioni, ma anche dello Stato stesso. Esso non rinuncia al criterio dell’individuazione delle competenze per materia. Il testo del 2001 ha realizzato l’inversione delle competenze legislative: mentre prima l’art. 117 Cost. indicava solo le materie di competenza legislativa regionale, partendo dal presupposto che tutte le altre, non enumerate, erano proprie dello Stato, adesso sono previste:
- materie di competenza statale, definita competenza esclusiva (art. 117.2), nelle quali solo lo Stato è abilitato a legiferare;
- materie di competenza regionale, definita competenza concorrente (art. 117.3) nelle quali spetta alla legge dello Stato fissare i principi fondamentali della materia, vincolati per il legislatore regionale, e alle regioni il potere di dettare norme legislative di dettaglio (nonché il potere regolamentare);
- materie di competenza regionale cosiddetta residuale, individuate per sottrazione rispetto a quelle espressamente enumerate, in quanto spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad “ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (art. 117.4)
La Costituzione (art. 116.3) prevede, l’eventualità che ciascuna regione ordinaria possa acquisire ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, che si aggiungono a quelle previste dall’art. 117 Cost. Si pongono così le premesse per attuare un’ipotesi ulteriore di regionalismo differenziato, anche se finora la previsione non ha avuto applicazione.
L’art. 117.1 Cost. individua i limiti generali cui è sottoposto l’esercizio di qualsiasi funzione legislativa, a prescindere quindi dal titolare. Tanto la legge statale quanto la legge regionale soggiacciono a tre limiti:
- il “rispetto della Costituzione”;
- i “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”;
- gli “obblighi internazionali”.
5.2 La potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117.2)
Le materie di competenza esclusiva dello Stato sono individuate secondo un criterio oggettivo (facendo riferimento a puntuali ambiti materiali), altre secondo un criterio teleologico (in ragione delle finalità o delle funzioni da realizzare) altre ancora secondo un criterio difficilmente qualificabile che consente più ampia discrezionalità al legislatore statale e applicazione estensiva. La Corte costituzionale ha infatti interpretato dinamicamente le competenze enumerate dallo Stato, ritenendo che alcune di esse rappresentassero “competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie”: si tratta delle materie trasversali, definite in dottrina anche materie-valori o materie non materie. Tali materie assomigliano a quelli che sono chiamati i “poteri impliciti” spettanti allo stato centrale in quanto desumibili dalle materie espressamente attribuite.
5.3 La potestà legislativa concorrente fra Stato e regioni (art. 117.3)
Le materie di competenza concorrente sono quelle nelle quali la potestà legislativa regionale deve esercitarsi nel rispetto dei principi fondamentali della materia stabiliti dallo Stato: principi o espressamente fissati da apposite leggi cornice, oppure in loro assenza desunti dall’ordinamento vigente. Cosa intendere per principi fondamentali della materia: la Corte costituzionale non ha mantenuto un orientamento lineare. Nella definizione del confine tra principi fondamentali e normativa di dettaglio gioca un ruolo centrale proprio la Corte costituzionale, alla quale spetta, di volta in volta, individuare il punto di equilibrio fra normativa statale e regionale e, quindi, l’ambito effettivo delle competenze costituzionali (sent. 326/2010). Resta ferma, anche dopo la riforma del titolo V, la regola secondo la quale lo Stato assieme alle disposizioni di principio può dettare anche disposizioni di dettaglio: in tal caso queste ultime valgono solo in via suppletiva (ossia in assenza di disciplina regionale), trattandosi di norme cedevoli di fronte a disposizioni eventualmente approvate da ciascuna regione. Ciò vale, a maggior ragione, in nome di un principio di continuità istituzionale, allorché si tratti di leggi statali dirette ad assicurare protezione a diritti fondamentali.
5.4 La potestà legislativa residuale delle regioni
Secondo l’art. 117.4 tutte le materie non espressamente attribuite “alla legislazione dello Stato” appartengono alla competenza residuale delle regioni. Tuttavia con quest’affermazione le regioni non vantano una competenza legislativa di tipo generale su tutte le materie innominate. Infatti ancor prima della clausola di residualità a favore della competenza regionale, deve applicarsi il differente criterio di prevalenza, in forza del quale le materie innominate prima di essere riconosciute alle regioni devono superare una verifica diretta ed accertare se esse non possano essere comunque ricondotte nell’ambito delle materie espressamente previste. In mancanza di una puntuale competenza statale si deve esplicare pienamente la competenza regionale: resta fermo ovviamente, al di la dei casi decisi dalla Corte costituzionale, che anche in queste materie si potrebbero, in futuro, rinvenire ragioni che giustifichino l’intervento normativo dello Stato.
5.5 Le competenze legislative nella giurisprudenza costituzionale
Alla luce della giurisprudenza costituzionale è possibile ritenere che siamo di fronte alla formazione progressiva di un diritto regionale vivente, non sempre coincidente con gli schemi indicati nella riforma del titolo V.
Quando la legislazione sottoposta al suo sindacato lo permetteva, la Corte costituzionale ha potuto enucleare, all’interno di uno stesso corpo normativo competenze diverse e distinte. Invece, in riferimento ai casi in cui la sovrapposizione di materie legislative statali e regionali nel medesimo corpo normativo rendeva inestricabili le competenze rispettive dello Stato e delle regioni, la Corte costituzionale ha enucleato la nozione di concorrenza di competenze, individuando due criteri specifici di risoluzione di tali conflitti: il già citato criterio di prevalenza e il principio di leale collaborazione, operanti a seconda che una materia possa essere chiaramente attribuita alla competenza legislativa statale o a quella regionale.
La Corte costituzionale ha riconosciuto come criterio di chiusura del sistema il principio di sussidiarietà, utilizzabile dallo Stato per assumere o disciplinare con propria legge funzioni amministrative ricadenti in ambiti di competenza legislativa concorrente o residuale regionale, ogniqualvolta si tratti di realizzare esigenze di carattere unitario. Per evitare che il ricorso al criterio della sussidiarietà si trasformi in uno strumento lesivo dell’autonomia regionale, rendendo totalmente mobile il riparto delle competenze legislative, è necessario, secondo la Corte, che la legge statale rispetti i principi di ragionevolezza, di proporzionalità e di leale collaborazione.
Le forme di leale collaborazione fra Stato e regioni sono ampiamente richiamate nelle giurisprudenza della Corte al fine di prevenire o risolvere i conflitti di competenza:
- intese forti: con le quali si richiede la concorde e paritaria manifestazione di volontà dello Stato e della regione;
- intese deboli: quando sia ritenuto sufficiente, da parte dello Stato, solo dimostrare di aver ricercato un accordo con la regione, anche se poi, in concreto, questo non sia stato raggiunto.
5.6 Potestà legislativa e potestà regolamentare
Secondo l’art. 117.6, la potestà regolamentare spetta:
- allo Stato, nelle materie di legislazione statale esclusiva, salva comunque la possibilità di delegarla alle regioni;
- alle Regioni, “in ogni altra materia” (tranne l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni attribuite a comuni e provincie).
L’attribuzione alle regioni della potestà regolamentare nelle materie di competenza concorrente crea non pochi problemi soprattutto quando si tratta di materie di particolare rilevanza nazionale, che difficilmente, per loro natura, si prestano ad una disciplina diversa regione per regione. In questo contesto, è invalsa la prassi, da parte dell’amministrazione statale di disciplinare tali materie non con atti regolamentari (che sarebbero vietati), ma con anomali e inediti atti che si autodefiniscono “aventi natura non regolamentare”; e, la Corte costituzionale è arrivata a giustificare un esercizio del potere regolamentare governativo ben al di là dei confini tracciati dall’art. 117.6 Cost.
La difficoltà di individuare con precisione le materie di competenza legislativa si ripercuote sulla definizione degli spazi di esercizio delle potestà regolamentare di stato, regioni ed enti locali, rafforzando le ragioni di coloro che criticano la scelta, compiuta nel 1948 e confermata nel 2001, di suddividere la competenza legislativa fra Stato e regioni sula base di elenchi di materie.
6. I RAPPORTI DELLE REGIONI CON ALTRI SOGGETTI
- Rapporti internazionali. Le regioni possono concludere, nelle materie di loro competenza, accordi internazionali. L’attività internazionale delle regioni è disciplinata dall’art. 6 della l. 131/2003.
- Rapporti con l’Unione europea. Nella materie di loro competenza, le regioni partecipano alla fase ascendente e alla fase discendente del diritto dell’Unione europea: concorrono, in altre parole, sia alla formazione sia all’attuazione ed esecuzione degli atti dell’unione. Le regioni possono e devono dare immediata attuazione alle direttive europee (fase discendente); inoltre è prevista la partecipazione di loro rappresentanti delle regioni alle delegazione del governo nel Consiglio dell’Unione (fase ascendente)
- Rapporti con lo Stato. La mancanza di un’assemblea rappresentativa che permetta alle regioni di concorrere alle principali scelte politiche ha portato alla creazioni di alcuni succedanei di notevole importanza: con la l.400/1988 venne istituita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le provincie autonome (la Conferenza Stato-regioni) presso la presidenza del Consiglio dei ministri, con compititi di informazione e consultazione su tutto ciò che, in relazione alla politica generale del governo, può incidere sulle materie di competenza delle regioni. Inoltre, l’art. 11 della l. cost. 3/2011 stabiliva che i regolamenti di ciascuna delle due camere avrebbero potuto integrare la composizione della commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle regioni e degli enti locali.
- Rapporti con altre regioni. La regione può concludere intese con altre regioni per il miglior esercizio delle proprie funzioni e istituire a tale scopo organi interregionali comuni; queste intese devono essere ratificate con legge regionale (art. 117.8 Cost.).
- Rapporti con gli enti locali. Il disegno costituzionale è chiaro nel delineare regioni con funzioni legislative e di programmazione ed enti locali dotati della competenza amministrativa generale. Rimane esclusa una competenza regionale sull’ordinamento degli enti locali, ma la Corte costituzionale riconosce significativi poteri al legislatore regionale in ordine a forme associative degli enti locali e alla disciplina dei servizi pubblici locali, ritenute materie di competenza residuale regionale. L’art. 123.4 Cost. ha previsto che ogni regione si doti, del già citato consiglio delle autonomie locali, quale “organo di consultazione fra la regione e gli enti locali”.
7. L’ORDINAMENTO DEGLI ENTI LOCALI
7.1 Aspetti generali
Con la riforma del titolo V l’ordinamento degli enti locali ottenne una garanzia direttamente nella Costituzione (prima era affidato alla legge generale della Repubblica). È la stessa Costituzione infatti a prevedere la potestà degli enti locali di darsi uno statuto. Viene inoltre prevista dall’art. 117.6 una potestà regolamentare “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e allo svolgimento delle funzioni loro attribuite”. Agli enti locali è pure garantita dalla Costituzione, in base all’art. 119, autonomia impositiva e finanziaria. Esse hanno il potere di auto-organizzarsi e ovviamente di amministrare, cioè di esercitare i compiti che la legge da loro o che hanno deciso autonomamente di assumere (autonomia organizzativa e amministrativa).
La Costituzione (art. 118.1) prevede poi, con una norma assai innovativa, che tutte le funzioni amministrative spettano ai comuni, salvo che per assicurarne l’esercizio unitario siano conferite dalla legge statale o regionale competente a un livello più alto, provinciale, regionale o statale (sulla base del principio di sussidiarietà).
Nel testo unico del 2000 comuni e provincie e comuni sono definiti come enti che rappresentano la propria comunità, ne curano gli interessi e ne promuovono lo sviluppo: sono, in altri termini, enti a fini generali, nel senso che se di certe funzioni devono necessariamente occuparsi, possono per il resto fare tutto ciò che ritengono utile alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo.
Al fine di razionalizzare l’uso delle risorse disponibili vista la crisi finanziaria di fine decennio si sono delineate certe linee d’azione: a) ridimensionamento degli organi (consigli e giunte comunali e provinciali); b) obbligo di esercizio associato delle funzioni da parte di tutti i comuni e le fusioni; c) trasformazione del ruolo e della stessa natura delle provincie, unita al riordino delle stesse secondo parametri dimensionali.
7.2 Le funzioni degli enti locali
Dal punto di vista terminologico, passando in rassegna le disposizioni costituzionali che riguardano a vario titolo le funzioni degli enti locali, si parla di funzioni fondamentali, attribuite, proprie e conferite.
Spetta allo Stato la potestà legislativa su “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, provincie e città metropolitane”. L’art. 118.1 attribuisce le funzioni amministrative in via generale ai comuni. L’art. 118.2 stabilisce che “i comuni, le province e le città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”. Nonostante i diversi termini adottati dal legislatore costituzionale, sembrano esserci vistose sovrapposizioni o addirittura identità fra le diverse disposizioni. Quindi ancora oggi non è definitivamente chiaro le funzioni degli enti locali. È da tempo all’esame del Parlamento un disegno di legge che dovrebbe fare chiarezza al riguardo (la carta delle autonomie).
7.3 Gli organi di governo dei comuni
L’organizzazione dei comuni prevede questi organi necessari:
- il sindaco è eletto a suffragio universale diretto e a maggioranza assoluta dei voti validi: nel caso questa non sia conseguita, si ricorre a un ballottaggio fra i primi due candidati più votati. Nei comuni fino a 15.000 abitanti per essere eletti basta la maggioranza relativa. Durano in carica 5 anni. Non possono essere rieletti immediatamente se hanno già esercitato due mandati consecutivi (limite di mandato). Il sindaco nomina e revoca gli assessori che con lui compongono la giunta: costoro possono essere anche non consiglieri e, se lo sono, decadono da consiglieri. È prevista quindi l’incompatibilità fra le due cariche. Sindaco e giunta sono il governo dell’ente locale.
- Il consiglio è definito “organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”: esso ha la competenza ad approvare una serie di atti fondamentali dell’ente e a dettare indirizzi su come sindaco e giunta devono agire; ma ha soprattutto il compito di verificare come sindaco e giunta assolvono alle funzioni esecutive.
- La giunta, dal canto suo, collabora col sindaco nel governo del comune, agendo come organo collegiale, e ha quella che viene chiamata competenza generale, cioè fa tutto quello che la legge o lo statuto non attribuiscono alla competenza del sindaco o del consiglio (art. 48 Tuel).
Il sindaco porta, in generale, la responsabilità di tutta l’amministrazione del comune, oltre a esercitare numerose funzioni che possiamo così sintetizzare:
- rappresenta l’ente, convoca e presiede la giunta (nei comuni piccoli può anche presiedere il consiglio: ma in genere questo ha un proprio presidente);
- sovrintende all’esercizio da parte del comune delle funzioni che esso ha ricevuto dallo Stato alla regione;
- adotta provvedimenti d’emergenza (le ordinanze contingibili ed urgenti) in materia di sanità e igiene pubblica;
- coordina e organizza gli orari di negozi, servizi e uffici pubblici;
- nomina e revoca (o designa) tutti i rappresentanti del comune in altri enti;
- nomina i responsabili di uffici e servizi, attribuisce gli incarichi dirigenziali e le collaborazioni esterne.
In quanto ufficiale del governo il sindaco sovrintende a: a) registri dello stato civile; b) adempimenti in materia elettorale; c) funzioni in materia di pubblica sicurezza e polizia giudiziaria; d) vigilanza in materia di ordine pubblico; e) può adottare ordinanze contingibili e urgenti in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana.
Il sindaco (e con esso la giunta) cessa dalla carica in caso di approvazione di una mozione di sfiducia da parte del consiglio: questa deve essere approvata a maggioranza assoluta per appello nominale, sulla base di una mozione motivata e firmata da almeno due quindi dei consiglieri. In questo caso anche il consiglio è sciolto e si procede a nuove elezioni. Per cui sindaco e consiglio sono eletti e vivono contestualmente; se cessa l’uno, cessa l’altro (aut simul stabunt aut simul cadent): ciò connota una forma di governo di legislatura a vertice monocratico elettivo.
La legge prevede istituti volti a garantire che il cittadino eletto a funzioni pubbliche locali possa disporre del tempo necessario, senza danni economici e senza svantaggi per la sua posizione professionale: disciplina perciò il regime delle aspettative, dei permessi e delle indennità e rimborsi cui gli amministratori locali hanno diritto. Naturalmente sono fissati anche i doveri degli amministratori, i quali non solo devono agire in modo imparziale e osservando il principio di buona amministrazione, ma devono rispettare la distinzione fra le funzioni proprie (di indirizzo) e quelle (di gestione) dei dirigenti delle amministrazioni cui essi sono preposti: ovvero la distinzione che si chiama, un po’ impropriamente tra politica e amministrazione.
La legge espressamente attribuisce ai dirigenti “tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi”, definiti con “atti di indirizzo” da sindaco, giunta, consiglio e segnatamente:
a) la presidenza di commissioni di gara e di concorso; b) la responsabilità di appalti e di concorsi; c) la stipula di contratti; d) la gestione finanziaria e l’assunzione di impegni di spesa; e) l’amministrazione e la gestione del personale; f) le autorizzazioni, le concessioni ed altri atti.
Per decenni al vertice della struttura amministrativa dei comuni vi è stato il segretario comunale figura di funzionari che da un lato apparteneva agli organici del ministero dell’interno, dall’altro dipendeva funzionalmente dal sindaco. Le trasformazioni nel corso del tempo sono state molteplici: per un verso sono stati posti alle dipendenze di un’agenzia autonoma e la loro nomina è stata sottratta al governo e affidata ai sindaci stessi, con incarico coincidente con la durata del mandato; per un altro verso hanno visto in molti casi ridimensionati i loro compiti a seguito dell’introduzione della diversa figura del direttore generale, quale vertice amministrativo dell’ente incaricato di sovrintendere alla gestione, sottoposto alle direttive del sindaco che lo nomina.
7.4 Le provincie
Dopo aver proposto una loro abolizione in Assemblea costituente, a partire dal varo del 1990 del primo ordinamento delle autonomie locali d’epoca repubblicana, le province videro un vero e proprio rilancio del loro ruolo con la definizione, al pari dei comuni, di enti a fini generali e con l’assunzione di una serie non irrilevante di funzioni. La riforma del titolo V segnò un ulteriore punto a favore delle provincie (il riscritto dell’art. 114 Cost. sembra porre in astratto sullo stesso piano gli enti costitutivi della Repubblica, province incluse.
Il moltiplicarsi per frammentazione delle province esistenti (cresciute da 92 a 107 proprio nei vent’anni dal 1990 al 20120), nonché la domanda sempre più affannosa di semplificazioni amministrative, ha portato i due governi (Berlusconi IV e Monti) a proporre alcune iniziative: sono state battute numero strade che però non hanno portato a una soluzione (ridefinizione delle funzioni, soppressione dell’ente, riduzione del loro numero con riordino territoriale).
Dopo che il parlamento aveva bocciato espressamente l’ipotesi di soppressione, con il d.l. 201/2011 (salva-Italia), varato in piena emergenza dal governo Monti come suo primo atto e convertito dalla l. 214/2011, è stata prevista la trasformazione degli organi provinciali non più eletti direttamente dal corpo elettorale. Il decreto ha sottratto alle provincie tutte le funzioni, ad eccezione di quelle “di indirizzo e di coordinamento delle attività dei comuni”, prevedendo il trasferimento delle competenze provinciali a comuni o regioni entro il 31 dicembre 2012. Successivamente, con il d.l. 95/2012 (spending review) il governo si è orientato verso una diversa strategia caratterizzata dalla riduzione delle funzioni con l’avvio di un processo di accorpamento e riduzione del numero delle province. In questo decreto è previsto che:
- le province debbano avere una dimensione territoriale non inferiore a 250.000 chilometri quadrati e una popolazione residente di almeno 350.000 abitanti;
- le province si occupino di pianificazione territoriale di coordinamento, tutela e valorizzazione dell’ambiente, pianificazione dei servizi di trasporto ecc.
- gli organi delle province siano solo il presidente e il consiglio.
7.5 Gli altri enti locali
- Le città metropolitane sono richiamate negli artt. 114 e 117-120 Cost. Già il testo unico del 2000 prevedeva, nelle aree comprendenti le maggiori città, che potessero essere istituiti, su proposta degli enti locali interessati e previo referendum popolare, enti così denominati e dotati di uno speciale ordinamento. Il decreto legge spending review provvede direttamente a sopprimere le province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria (oltre a Roma per cui è previsto un regime speciale). Il decreto prevede l’adozione di uno statuto provvisorio la cui approvazione deve essere sostenuta dalla maggioranza dei due terzi e dal voto favorevole sia del sindaco del comune capoluogo sia del presidente della provincia. In caso di mancata approvazione, il sindaco metropolitano sarà per legge sindaco del comune capoluogo.
- Una speciale disciplina è prevista dall’art. 114.3 Cost. per Roma capitale della Repubblica. L’ordinamento transitorio di Roma capitale è disciplinato dal d.lgs. 156/2010 e da d.lgs. 115/2012. In pratica si tratta di un solo comune dotato, tuttavia, delle funzioni amministrative proprie della città metropolitana più altre ancora.
- Le unioni di comuni sono enti locali costituiti da due o più comuni per esercitare insieme una pluralità di funzioni. L’unione può essere il presupposto di una successiva fusione, ma questa non è obbligatoria. Possono essere frutto di scelta politica per risparmiare risorse o mettere insieme servizi che da soli non potrebbero garantire, oppure di una imposizione legislativa prevista per i comuni fino a 5.000 abitanti. L’ordinamento prevede due tipi di unioni: le unioni ordinarie (modalità organizzativa, alternativa alla convenzione, per l’esercizio in forma associata delle funzioni fondamentali) e le unioni speciali (riservate ai comuni sotto i 1.000 abitanti, i quali possono farvi ricorso per l’esercizio di tutte le funzioni).
- L’ordinamento statale degli enti locali prevedeva fino al 2009 anche le comunità montane, unioni di comuni costituite fra comuni montani o parzialmente montani allo scopo di meglio affrontare i problemi specifici delle comunità di montagna.
Quelli appena elencati sono veri e propri enti locali. Non sono tali invece:
- i municipi, che sono partizioni amministrative all’interno dei soli comuni nati dalla fusione di precedenti comuni; lo statuto comunale ne disciplina organizzazione e funzionamento;
- le circoscrizioni, che sono organismi di partecipazione, consultazione e gestione di servizi all’interno di comuni: un tempo obbligatorie in tutti i circa 40 comuni con oltre 100.000 abitanti, sono ora ammesse nei soli dodici comuni italiani oltre i 250.000 abitanti; organizzazione e funzioni sono stabiliti dallo statuto, che può prevedere l’elezione diretta degli organi circoscrizionali.
Per svolgere le loro funzioni coordinandosi fra loro, gli enti locali possono anche far ricorso ad altri strumenti: possono stipulare convenzioni fra più comuni (cioè accordi e trattati) che definiscono ciò che intendono fare insieme, nonché i reciproci obblighi e i relativi rapporti finanziari; oppure, quando non si tratta tanto di gestire un servizio ma di realizzare un’opera, si fa ricorso al particolare strumento procedurale dell’accordo di programma.
- LE FUNZIONI AMMINISTRATIVE E IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ
Le funzioni amministrative di comuni, provincie e regioni e Stato sono disciplinate dall’art. 118 Cost. La riforma del 2001 ha sostituito il criterio del parallelismo delle funzioni (in base al quale alla regione spettava l'esercizio di funzioni amministrative nelle stesse materie di competenza legislativa) con il principio di sussidiarietà verticale: in base ad esso le funzioni spettano di regola all’ente più vicino al cittadino mentre l’intervento degli enti superiori è successivo e sussidiario. Infatti l’art. 18.1 Cost. prevede che “le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni” a meno che la legge (statale o regionale, a seconda delle competenze) non provveda a conferire a province, città metropolitane, regioni o stato per garantire, di volta in volta, esigenze di carattere unitario.
Al principio di sussidiarietà verticale l’art. 118.1 affianca:
- il principio di adeguatezza: il livello di governo individuato dalla legge debba essere in grado (e cioè capace) di gestire quella funzione, altrimenti si deve affidare la funzione a un livello di governo, per l’appunto, più adeguato.
- il principio di differenziazione: il conferimento delle funzioni amministrative deve avvenire in modo ragionevole, disciplinando in modo eguale situazioni eguali e in modo differente situazioni differenti.
La Corte costituzionale potrà valutare se ci sono le ragioni che giustifichino l’attribuzione ad un livello superiore di una determinata funzioni amministrativa.
Accanto al principio di sussidiarietà verticale, l’ultimo comma dell’art. 118 introduce anche il principio di sussidiarietà orizzontale, in forza del quale tutti gli enti territoriali che costituiscono la Repubblica, compreso lo Stato, sono tenuti a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale. Il principio vale a tracciare una linea di confine tra intervento pubblico e intervento privato.
- L’AUTONOMIA FINANZIARIA E FISCALE DELLE RGIONI E DEGLI ENTI LOCALI
Le regioni, i comuni e le provincie hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio di bilancio (art. 119 Cost.). Dispongono di un proprio patrimonio; possono indebitarsi ricorrendo al mercato dei capitali (art. 119.6), ma solo per compiere spese di investimento, ad esempio la costruzione di un ponto o una strada, non per sostenere spese correnti, quali quelle del personale, sapendo che sui prestiti è espressamente esclusa la garanzia dello Stato. Le risorse ordinarie delle regioni e degli enti locali sono di diversa origine:
- tributi ed entrate proprie, ossa fonti di finanziamento autonome, derivanti o dall’esercizio di poteri impositivi propri o da altre forme di autofinanziamento, come i corrispettivi per servizi pubblici offerti dalla collettività;
- compartecipazione al gettito di tributi erariali (cioè statali) riferibili al loro territorio (secondo il criterio che le risorse devono restare o tornare almeno in parte alle comunità che le producono), consistenti in quote di gettito derivanti dalle principali imposte nazionali;
- entrate derivanti da un fondo perequativo, istituito con legge statale, per garantire una distribuzione di risorse finanziarie in funzione di perequazione a vantaggio dei territori la cui capacità fiscale pro capite è più bassa. Tali risorse vanno in ogni caso trasferite senza vincolo di destinazione, ossia senza predeterminazione di specifiche finalità o funzioni, lasciando alle regioni e agli enti locali la libertà di sceglierne l’impiego in questo o quel settore.
Tutte queste fonti di finanziamento devono permettere la copertura delle spese derivanti dall’esercizio delle funzioni assegnata a ciascun ente territoriale (art. 119.4). È questo il principio della congruità tra funzioni e risorse finanziarie, principio di carattere generale diretto a garantire regioni ed enti locali nella disponibilità di risorse sufficienti per attuare le proprie politiche di spesa nelle materie assegnate alle rispettive competenze. Sono previsti altresì, trasferimenti ulteriori dello Stato a favore di determinati enti regionali o locali per specifiche finalità (sviluppo economico, coesione e solidarietà sociale, rimuovere gli squilibri economico-sociali): in questo caso è possibile prevedere dei vinicoli di destinazione, trattandosi di risorse non destinate a finanziare funzioni proprie di regioni ed enti locali.
Queste revisioni costituzionali sono restate inattuate fino all’approvazione della l. 42/2009 (Delega al governo in materia di federalismo fiscale in attuazione dell’art. 119 Cost.) con cui si vuole realizzare l’idea di fondo del federalismo fiscale: ciascun ente territoriale può godere di tributi propri, compartecipazioni e tributi derivati sufficienti a finanziare l’esercizio delle funzioni, vedendosi garantire ciò che manca dallo Stato, limitatamente ai livelli essenziali delle prestazioni (Lep), in misura determinata sulla base di costi standard definiti a livello nazionale.
La Corte costituzionale, nelle more dell’attuazione legislativa dell’art. 119, aveva chiarito alcuni punti che lo Stato deve comunque rispettare. In particolare, per quanto riguarda i trasferimenti statali: non è consentito allo Stato istituire fondi settoriali di finanziamento delle attività regionali né comunque prevedere finanziamenti statali in ambiti di competenza delle regioni, con la sola eccezione di quei finanziamenti che siano volti ad assicurare le finalità racchiuse nelle “materie trasversali”.
L’autonomia finanziaria di regioni, comuni e province deve svolgersi, in ogni caso, “in armonia con la Costituzione” e “secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, e solo in base a una specifica legge statale o regionale.
Il coordinamento finanziario e fiscale è una funzione volta unificare i diversi sistemi finanziari e tributari degli enti che costituiscono la Repubblica. Il coordinamento, infatti, presuppone che ciascuno di essi possa fare politiche di bilancio autonome, le quali devono poi essere ricondotte a coerenza. I principi di coordinamento sono la cornice entro cui regioni ed enti locali possono legittimamente esercitare il potere di stabilire e applicare tributi ed entrate propri. Proprio a tal fine la legge 42/2009 ha istituito una conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, organo tecnico cui partecipano rappresentati di tutti gli enti territoriali, e ha previsto misure di armonizzazione dei bilanci.
Il coordinamento finanziario statale, inoltre, è finalizzato anche ad adempire agli obblighi derivanti dal Patto di stabilità e crescita sottoscritto in sede di Unione Europea.
Sulla base dei “vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea”, richiamati dal primo comma dell’art. 119, sono consentite limitazioni alla capacità di spesa delle regioni e degli enti locali anche attraverso controlli, obblighi di informazioni e fissazione di standard o latri limiti, stabiliti dal corrispondente patto di stabilità interno introdotto dalla l. 448/1988 e ulteriormente rafforzato ad ogni manovra finanziaria, tanto più dopo l’inizio della crisi dell’euro del 2010.
10. I POTERI DI CONTROLLO DELLO STATO
La riforma del titolo V ha abrogato quelle disposizioni che prevedevano il controllo dello Stato sugli atti amministrativi delle regioni. Inoltre, la legislazione regionale non è più soggetta al visto preventivo del governo: quando il consiglio regionale approva una legge, questa viene pubblicata sul Bollettino Ufficiale ed entra senz’altro in vigore, e il governo può solo, entro 60 giorni dalla data di pubblicazione, promuovere una questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale. L’unica forma di controllo preventivo oggi prevista dalla Costituzione è il sindacato di legittimità costituzionale degli statuti regionali (art. 132.2). Ma la Costituzione non prova lo Stato di importanti poteri di controllo: si tratta dei poteri sostitutivi sull’attività delle regioni e degli enti locali e dei controlli sugli organi regionali e locali.
- Il potere sostitutivo è attribuito dall’art. 120.2 Cost. al governo nei confronti degli organi regionali e degli enti locali in una serie di casi:
- mancato rispetto di norme e trattati internazionali e della normativa europea;
- pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica;
- tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica della Repubblica, con riferimento particolare alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili sociali.
I poteri sostitutivi sono esercitati secondo le procedure definite dalla legge statale, nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione. In particolare i poteri sostitutivi statali sono disciplinati dall’art. 8 l. 131/2003, il quale sembra permettere che si esplichino non solo in relazione all’attività amministrativa, ma anche rispetto all’attività normativa sugli enti sostitutivi.
Da notare che se i primi due casi appaiono nitidamente definiti, la tutela dell’unità giuridica ed economica lascia spazio a valutazioni ampiamente discrezionali, per le quali non è facile prefigurare parametri precisi. Allora la Corte costituzionale ha stabilito una serie di elementi che devono caratterizzare l’esercizio dei poteri sostitutivi:
- i poteri sostitutivi devono essere previsti e disciplinati dalla legge, che deve definire i presupposti sostanziali e procedurali;
- la sostituzione può prevedersi esclusivamente per il compimento di atti o di attività prive di discrezionalità rispetto alla necessità del loro svolgimento;
- il potere sostitutivo deve essere esercitato da un organo di governo o sulla base di una decisione di questo;
- la legge deve apprestare congrue garanzie procedimentali per l’esercizio del potere sostitutivo, in conformità al principio di leale collaborazione.
- Il controllo statale sugli organi regionali è previsto dall’art. 126.1 Cost.: esso consiste nello scioglimento del consiglio regionale e nella rimozione del presidente della regione, non per ragion legate al funzionamento della forma di governo, bensì come extrema ratio:
- nel caso in cui il consiglio o il presidente abbiano compiuto “atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge”;
- quando lo impongano “ragioni di sicurezza nazionale”.
Lo scioglimento e la rimozione sono disposti con decreto del presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentita la commissione parlamentare per le questioni regionali.
- Il controllo statale sugli organi degli enti locali è previsto dagli artt. 141-143 Tuel. Per i consigli comunali e provinciali lo scioglimento (sempre mediante decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri) può essere determinato:
- dal compimento di atti contrari alla Costituzione, per gravi e persistenti violazioni di legge, per gravi motivi di ordine pubblico;
- dalla non approvazione del bilancio nei termini previsti dalla legge;
- da fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso
- Sempre maggiore rilevanza hanno infine assunto le forme di controllo interno, a partire dal controllo di gestione secondo modalità simili a quelle delle aziende private, volte a verificare la quantità, la qualità ed il costo dei esercizi effettivamente resi e delle prestazioni effettivamente fornite. Invece il controllo esterno sulla gestione delle regioni e degli enti locali è affidato alla Corte dei conti che lo esercita attraverso le sue sezioni regionali.
11. LE REGIONI A STATUTO SPECIALE
L’art. 116.1 Cost. riguarda le regioni Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige/Südtirol e Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste. Inoltre, al secondo comma, si dice che le province autonome di Trento e Bolzano hanno le stesse attribuzioni delle regioni a partire dalla potestà legislativa. A queste cinque regioni sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia, sulla base di statuti definiti speciali. La specialità consiste nel fatto che gli statuti vengono adottati con legge costituzionale e che, con essi, viene definito il particolare profilo dell’autonomia di ciascuna regione.
Pur nella varietà degli statuti, le regioni speciali hanno quindi sempre avuto:
- una potestà legislativa in un numero di materie più ampio di quelle previste per le regioni ordinarie. Dopo la riforma del 2001 tale divario si è appunto fortemente ridotto, ma rimane l’importante competenza in ordine all’ordinamento delle autonomie locali dalla quale le regioni ordinarie sono escluse;
- una competenza legislativa esclusiva in alcune materie, con i soli limiti degli obblighi internazionali, degli interessi nazionali, delle grandi leggi di riforma economico-sociale e dei principi generali dell’ordinamento giuridico; una competenza concorrente, con limiti analoghi a quelli previsti per la corrispondente competenza delle regioni ordinarie e derivanti da leggi cornice dello Stato; nonché una competenza attuativa-integrativa per l’attuazione e integrazione di leggi dello Stato;
- un’ampia autonomia finanziaria, anche impositiva, sulla base di normative diverse che assicurano risorse ingenti a tutte le regioni speciali, fermo restando per tali regioni il limite dell’esclusione dell’indebitamento per spese diverse da quelle di investimento.
Per quanto riguarda la forma di governo, la l. cost. 2/2001, in via provvisoria, ha previsto, come per le regioni ordinarie, l’elezione del presidente della regione “a suffragio universale e diretto”, contestualmente all’elezione del consiglio regionale, e lo scioglimento del consiglio in caso di dimissioni del presidente o di sfiducia espressa dal consiglio nei suoi confronti. Gli statuti speciali, come modificati dalla stessa legge, non disciplinano le modalità di elezione del presidente della regione, ma rinviano a una legge regionale da approvare a maggioranza assoluta e sottoponibile a referendum (legge statutaria).
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