giovedì 5 settembre 2013

CAP. 8 - I DIRITTI E I DOVERI


CAP. 8 - I DIRITTI E I DOVERI

  1. I DIRITTI INVIOLABILI NELL’ART. 2 COST.
Secondo l’art. 2 Cost. “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. In base a questa disposizione, l’ordinamento tutela i diritti fondamentali e li rende inviolabili sia dai poteri pubblici sia dai privati. Ai diritti inviolabili sono riconosciute le seguenti caratteristiche:
  1. assolutezza: possono essere fatti valere nei confronti di tutti (soggetti pubblici e soggetti privati);
  2. inalienabilità e indisponibilità: non possono essere trasferiti né a titolo oneroso (con scambio di natura economica) né a titolo gratuito dall’individuo per atto di volontà del titolare;
  3. irrinunciabilità: il titolare non vi può rinunciare;
  4. imprescrittibilità: il mancato esercizio di essi, anche se per tempo prolungato, non comporta l’estinzione, ossia la perdita da parte del titolare.
L’uso del termine “inviolabili” e “riconoscere” evoca concezioni giusnaturalistiche secondo le quali i diritti non sarebbero conferiti dall'ordinamento ma da questo semplicemente riconosciuti in quanto preesistenti a ogni istituzione politica.
La dottrina prevalente, però, legata a una concezione positivistica e storicistica, tende a escludere una tale lettura dell’art. 2, sottolineando come la persona sia portatrice non di valori preesistenti all stato, ma di valori tutelati da uno specifico ordinamento giuridico, storicamente dato. Lo stesso termine “inviolabili” va interpretato come un richiamo non al diritto naturale, ma all’assoluta inderogabilità dei diritti fondamentali (quei limiti impliciti alla revisione costituzionale).
I diritti inviolabili sono riconosciuti a tutti gli uomini in quanto tali, non ai soli cittadini: questo giustifica l’effetto espansivo dei diritti fondamentali anche nei confronti di chi cittadino non è. Alcuni di essi competono anche al nascituro (vedi di seguito).
Quanto al riferimento che l’art. 2 fa alle “formazioni sociali”, esso significa non solo che i diritti del singolo sono tutelati anche all’interno delle formazioni sociali, ma anche che la titolarità dei diritti inviolabili spetta anche alle formazioni sociali.
Sono così affermati due dei principi fondamentali della Costituzione:
  1. il principio personalista, in base al quale esiste una sfera della personalità fisica e morale di ogni uomo che non può essere lesa da alcuno
  2. il principio pluralista che tutela l’uomo nelle relazioni sociali e ad essere garantisce gli stessi diritti dei singoli individui.
In ordine all’art. 2 ci si è chiesti se siamo di fronte a un testo che intende riassumere le libertà poi dettagliatamente disciplinate dagli artt. 13 e ss., oppure a una sorta di clausola generale suscettibile di garantire tutela a diritti inviolabili al di là di quelli espressamente previsti. La Corte costituzionale ha fatto propria la seconda ipotesi (sent. 561/1987 e 199/1986): per cui considera quella contenuta nell’art. 2 una disposizione a fattispecie aperta, che assicura tutela costituzionale a nuovi diritti considerati come inviolabili dal corpo sociale, e perciò riconosciuto dal legislatore o dalla giurisprudenza o anche da dichiarazioni internazionali. L’articolo garantito non è esplicitamente espresso in Costituzione ma è sempre riscontrabile un richiamo.
Lo stesso legislatore ha, in più occasioni, richiamato l’art. 2 quale fondamento costituzionale di “nuovi diritti” che si accingeva a garantire.

--------------------------------- I DIRITTI DELLA PERSONALITÀ ----------------------------------------

I diritti della personalità non sono i diritti della persona. I diritti della persona, o libertà dell’individuo, si intendono tutti i singoli diritti di libertà previsti nell’ordinamento; i diritti della personalità sono una determinata categoria all’interno dei diritti fondamentali della persona.

2. IL DIRITTO ALLA VITA E ALL'INTEGRITÀ FISICA
Il diritto alla vita e all'integrità fisica non è specificatamente previsto in Costituzione, am può considerarsi il primo dei diritti inviolabili riconosciuti dall’art. 2. È tutelato dalle leggi civili che consentono e incentivano la donazione del sangue e il trapianto di organi, vietando però gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica del soggetto e che siano “altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume” (art. 5 codice civile); nonché la legge penale che punisce i delitti contro la vita e l’incolumità individuale.
Il diritto alla vita si può implicitamente trarre anche dall’art. 27.4 Cost. che vieta la pena di morte. In relazione a ciò, non possono essere estradati cittadini che altrimenti verrebbero puniti con la pena di morte.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nel tutelare il diritto alla vita e nel vietare la pena di morte, afferma inoltre il divieto di pratiche eugenetiche dirette, attraverso la selezione di caratteri genetici considerati più favorevoli, a migliorare la specie umana.
La battaglie civile e politica pro o contro l’aborto ha messo in evidenza il tema della titolarità della garanzia del diritto alla vita del nascituro: anche colui che non è ancora nato gode di tale diritto (sent. 27/1975). Nei paesi dov’è riconosciuta la possibilità di aborto, questa è permesse solo condizioni precise ed entro un determinato periodo di tempo dal concepimento in modo da contemperare tutela della salute della madre e tutela del nascituro (in Italia entro 90 giorni, l. 194/1978). La Corte costituzionale ha affermato che la situazione giuridica del concepito deve collocarsi fra i diritti inviolabili tutelati dall’art. 2 Cost, ma che esso non è ancora persona e quindi non è equiparabile con il diritto alla saluta di chi è già persona

  1. IL DIRITTO ALL’ONORE E IL DIRITTO ALL’IDENTITÀ PERSONALE
Il diritto all’onore è la tutela dell’integrità morale della persona, del decoro, del prestigio, della reputazione, anche indipendentemente dalla veridicità dei comportamenti attribuiti dal soggetto. Esso è garantito penalmente dagli artt. 594-599 che puniscono i “delitti contro l’onore”. Sono inviolabili per la Corte costituzionale il diritto al proprio decoro, il diritto al proprio onore, alla propria rispettabilità e reputazione, alla propria immagine pubblica. 
Meno consolidato è il diritto all'identità personale, ovvero il diritto a essere se stesso, inteso come rispetto dell’immagine di partecipe alla vita associata, con le acquisizione di idee, con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali che differenziano, e al tempo stesso qualificano, l’individuo. In tal senso anche la tradizionale funzione del cognome quale senso identificativo della discendenza famigliare si arricchisce di una distinta tutela, in quanto strumento identificativo della persone e quindi parte essenziale della personalità. Il figlio ha diritto a un riconoscimento formale del proprio status filiationis. Esso implica il diritto di agire per il riconoscimento della paternità e della maternità e il diritto di poter assumere il nome della propria discendenza familiare. 
Il diritto all'identità personale e trova un parziale riconoscimento legislativo nel diritto alla rettifica, cioè il diritto di ciascuno a che il mezzo di informazione corregga eventuali affermazioni non veritiere sul proprio conto.

  1. IL DIRITTO ALLA LIBERTÀ SESSUALE
Il diritto alla libertà sessuale consiste nel disporre liberamente della propria sessualità ed è uno dei modi essenziali di espressione della persona umana, definito dalla Corte costituzionale un “diritto soggettivo” che deve essere tutelato dalla Costituzione e quindi fatto rientrare tra i diritti inviolabili dell’art. 2 (sent. 561/1987). La Corte di cassazione riconosce come un “danno ingiusto” ogni lesione del diritto alla libertà sessuale punibile con condanna in sede penale. La legge 66/1996 ha rubricato fra i delitti contro la libertà personale gli atti di violenza sessuale, fino alla fine degli anni Novanta ricompresi nei codice penale tra i delitti contro la moralità pubblica. Essa ha modificato anche la norma che puniva come violenza sessuale la congiunzione con un minorato psichico facendola rientrare nell’“abuso delle condizioni di inferiorità”.
Collegato al diritto alla libertà sessuale è il diritto al libero orientamento sessuale, ovvero la scelta con cui attivare il rapporto sessuale, collegato strettamente al “pieno sviluppo della persona umana” e che prescinde direttamente dal problema della libertà sessuale. È riconosciuto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue.
La Corte costituzionale si è espressa sulle unioni omosessuali e sulla possibilità di introdurre il matrimonio per esse. Con la sent. 138/2010, dando rilievo alla tutela delle relazioni omosessuali, la Corte afferma che non spetta a lei introdurre il matrimonio omosessuale, ma si limita a far rientrare nelle unioni legittime che non devono essere discriminate ma tutelate.

  1. IL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA
Il diritto alla riservatezza, cioè alla segretezza e all’intimità della vita privata (in relazione a comportamenti, convinzioni, immagini), concerne una fattispecie di tutela molto particolare: va a tutelare una sfera di intimità della persona che oggi più che mai può essere messa in pericolo dalle nuove tecnologie di comunicazione. Questo diritto non è espresso in Costituzione, ma la sua tutela passa attraverso il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, nonché attraverso il riconoscimento dell’inviolabilità del domicilio e delle comunicazioni (artt. 14-15).
Nel 1996, a seguito della direttiva 95/46/Ce, è stato istituito il Garante per la protezione dei dati personalità. Infatti il diritto alla privacy è costantemente minacciato dallo sviluppo di nuove tecnologie e mezzi di comunicazioni (telecamere in luoghi pubblici, banche dati di proprietà pubblica su Internet ecc.). Per questo si parla anche di diritto all’autodeterminazione informativa e di habeas data, ovvero il diritto di controllare la circolazione delle informazioni personali, quindi essere informati sul trattamento dei propri dati, di avere accesso ad essi per eventualmente correggerli.
Fra i dati meritevoli di protezione vi sono soprattutto quelli che la legge chiama dati sensibili, capaci di rivelare l’origine razziale o etnica, le convinzioni religiose e politiche, lo stato di salute, le abitudini sessuali delle persone: essi non possono essere raccolti, senza il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante.
Particolarmente delicata è la questione dei limiti al diritto alla riservatezza: la legge opera un bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto all'informazione, il diritto di cronaca e la libertà di stampa.

---------------------- I DIRITTI RELATIVI ALLA SICUREZZA PERSONALE ----------------------

  1. LA LIBERTÀ PERSONALE (art. 13)
La prima libertà garantita al singolo è la libertà personale, che l’art. 13 Cost dichiara inviolabile, senza chiarirne il contenuto. La libertà personale è uno dei diritti civili più antichi: già presente nella Magna Charta Libertatum, poi riconfermato con l’Habeas Corpus Act (1679), dal latino “che tu abbia il corpo”, viene concesso lil diritto in base al quale una persona può ricorrere per difendersi dall'arresto illegittimo di sé stessa o di un'altra persona. Si capisce che la libertà personale consiste in una chiara libertà negativa: si chiede allo stato di non intromettersi e non limitare il singolo nella sua sfera fisica con arresti arbitrari.
L’espressione libertà personale è la libertà da atti di coercizione fisica (la coercizione fisica per eccellenza è l’arresto). La definizione, alquanto generica, comporta la precisazione di alcuni aspetti.

A) I provvedimenti restrittivi della libertà personale
La libertà personale va letta con riferimento alle misure che sono vietate nel secondo come dell’art. 13, vale a dire la detenzione, l’ispezione e la perquisizione personale. Delimitato il campo resta però da interpretare l'espressione “né qualsiasi altra restrizione della libertà personale”. La libertà personale non ammette:
  • atti di coercizione fisica, siano essi posti in essere dalla polizia o dal privato (esclusi atti coercitivi di scarsa incidenza);
  • atti di degradazione giuridica, ovvero quelle che possono ritenersi lesivi della libertà personale e che, pur non consistenti in forme di coercizione fisica, incidono negativamente, degradandola, sulla personalità morale.
Riguardo la libertà morale, ossia la libertà dell’individuo di determinare autonomamente i propri comportamenti, ci si è chiesto se essa possa rientrare nella fattispecie dell’art. 13. La questione è alquanto rilevante poiché, se affermiamo che la libertà morale possa far parte delle libertà personali, su di essa ricadono tutte le forme di tutela e di limitazione previste dall’art. 13. La Corte ha detto che la libertà morale non rientra nelle fattispecie dell’art. 13. Invece, in materia di prevenzione e in particolare di sorveglianza speciale, la Corte costituzionale, con la sent. 11/1959, ha stabilito che lo stato di soggezione è di tale intensità (per molti aspetti analogo allo stato di detenzione) che deve fatto rientrare nella fattispecie dell’art.13 e non dell’art. 16 (libertà di circolazione), con le conseguenti limitazioni.

B) La riserva di legge assoluta e limiti sostanziali alla penalizzazione
La Costituzione ammette restrizioni della libertà personale, ma “nei soli casi e modi previsti dalla legge” (art. 13.2). Questo chiaramente rimanda ad una riserva di legge assoluta. In altre parole, la materia è del tutto sottratta alla disciplina secondaria. La Costituzione, però, non dice nulla riguardo i presupposti e gli interessi che permetto al legislatore di prevedere tali restrizioni: questi devono essere rinvenuti nell’ordinamento costituzionale. Questi “casi” allora coincidono con i “reapti” e con i presupposti delle “misure di sicurezza”. Ma la Costituzione non si limita a devolvere al legislatore la competenza a configurare qualsiasi comportamento come reato: determina anche limiti sostanziali alla penalizzazione. Li così possiamo riassumere:
  • il principio di tassatività o determinatezza del precetto penale. La condotta vietata va determinata in modo chiaro, affinché tutti abbiano la piena consapevolezza dell’illecito da non commettere, e per consentire, a chi si trovi accusato, di difendersi (la determinatezza del fatto-reato, di cui all’art. 25 Cost, si collega al diritto di difesa, di cui all’art. 24 Cost.).
  • il divieto di interpretazione analogica della norma penale (art. 14 preleggi), ma riconducibile all’art. 25.
  • il principio della personalità della responsabilità penale (art. 27.1). La legge non può ascrivere al soggetto il fatto d’altri, non imputabile al soggetto.
  • il principio di colpevolezza, in base al quale sono punibili solo le condotte materiali collegate a un atteggiamento soggettivo di colpevolezza nelle forme di dolo (evento voluto) o della colpa (evento dovuto a negligenza, imprudenza, imperizia).
  • il principio di irretroattività delle norme penali, in base la quali £nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” (art. 25.2).
  • il principio di offensività e lesività del reato. Poiché il ricorso alla sanzione penale può colpire bei protetti dalla Costituzione (libertà personale e dignità sociale della persona condannata), per costituire reato il fatto deve, a sua volta, pregiudicare un bene o un interesse costituzionalmente tutelato.
  • il giusto processo (art. 111 Cost.).

C) La riserva di giurisdizione
Alla riserva di legge si aggiunge la seconda garanzia della libertà personale, la riserva di giurisdizione: nessuna restrizione è consentita “se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria” (art. 13.2). In deroga a quanto detto, nel terzo comma è ammessa, in casi eccezionali indicati tassativamente dalla legge, una competenza dell’autorità pubblica di sicurezza: si tratta delle ipotesi dell’arresto in flagranza del reato e del fermo di indiziati di reato (si presuppone che vi siano gravi indizi di colpevolezza), che devono essere “comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria” e convalidati della medesima nelle successive quarantotto ore, pena la revoca e la perdita d’efficacia (art. 13.3). La garanzia della riserva di giurisdizione è corredata dal requisito della motivazione del provvedimento restrittivo, in attuazione del principio in base al quale “tutti i provvedimento giurisdizionali devono essere motivati” (art. 111.6); inoltre la persona colpita da misura privativa della libertà può sempre ricorrere in assazione (art. 117.1). La deroga prevista del secondo comma, quindi, non incide sulla riserva di legge, ma solo sulla riserva di giurisdizione.

D) Misure di sicurezza e misure di prevenzione
La Costituzione consente anche restrizioni alla libertà personale giustificate da esigenze di prevenzione. Infatti, l’art. 25 contempla, accanto alle pene, le misure di sicurezza, sottoponendo anch’esse al principio di legalità. Le misure di sicurezza detentiva sono vuole a neutralizzare la pericolosità del soggetto e svolgono perciò una funzione di difesa sociale. La pericolosità è, tuttavia, agganciata al fatto-reato dal quale è desunta: le misure di sicurezza possono essere aggiunte alla pena per prevenire, con la rieducazione, all’eliminazione della pericolosità del colpevole.
Altra cosa sono le misure di prevenzione, previste dalle leggi di polizia. Esse sono tese a impedire la commissione di reati da parte di soggetti ritenuti socialmente pericolosi, ma diversamente dalle misure di sicurezza, prescindono da un precedente reato (sono ante o praeter delictum). Tali misure consistono in limitazioni alla libertà del colpito (rimpatrio, sorveglianza speciale ecc.). Si capisce che l’ordinato svolgimento dei rapporti sociali deve essere tutelato, oltre che da norme repressive dei fatti-reato, anche da un apparato di misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi in futuro.

E) La custodia cautelare
Un’ulteriore forma di restrizione è la custodia cautelare. Oltre alla reclusione susseguente a condanna, la carcerazione è prevista anche prima che la responsabilità penale sia definitivamente acclarata, affinché il tempo necessario alla conclusione del processo non impedisca alla funzione giurisdizionale penale di conseguire gli scopi cui tende. La Costituzione rimette al legislatore la determinazione del limite di durata della carcerazione preventiva. Comunque l’interesse pubblico che giustifica la carcerazione preventiva deve coniugarsi con principio della presunzione di non colpevolezza dell'imputato. La carcerazione preventiva è l’estrema ratio della custodia cautelare. Le misure cautelari personali sono disposte in tre casi: 
  1. possibile inquinamento di prove
  2. pericolo di fuga
  3. rischio di reiterazione del reato.
Nella scelta delle misura applicabili, il giudice deve osservare i principi di adeguatezza e proporzionalità, disponendo la misura meno gravosa per l’imputato tra quelle idonee a garantire le esigenze cautelari.

F) Il trattamento del detenuto e le funzioni della pena
La Costituzione, nel vietare ogni violenza fisica o morale sulle persone private della libertà personale e nell’escludere che le pene possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, individua il contenuto minimo del trattamento del detenuto. Così viene integrata la ratio del divieto della pena di morte statuito all’art. 27.4 Cost. La pena tre scopi principali:
  1. la prevenzione generale: dissuadere la generalità dei consociati dal commettere reati;
  2. la prevenzione speciale: dissuadere il reo dal commettere reati;
  3. la rieducazione del condannato (spesso non seguito per motivi economici e infrastrutturali).
Diverso è il problema della misura della pena, cioè della proporzione rispetto al disvalore del reato commesso, che la Corte sottopone al vaglio della ragionevolezza.

  1. LA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE E SOGGIORNO E LA LIBERTÀ DI ESPATRIO (art. 16)
L’art. 16.1 Cost. tutela la libertà, per ogni cittadino, di muoversi sul territorio italiano e di fissare, in qualunque parte di esso, la propria dimora (luogo di soggiorno temporaneo) o la propria residenza (luogo di soggiorno abituale, risultante dal registro anagrafico del comune d’appartenenza). Il riconoscimento di questa libertà ai soli cittadini non vuol dire che essa debba essere negata a stranieri e apolidi: l’assenza di copertura costituzionale non esclude che la legge ordinaria possa riconoscerla anche ad altre categorie di soggetti.
Un regime particolare compete ai cittadini dell’Ue, i quali godono del “diritto di stabilimento”, ossia della facoltà di scegliere liberamente dove svolgere sul territorio comunitario al propria attività lavorativa e, in base agli Accordi di Schengen, del diritto al libero ingresso nei paesi aderenti.
A tutela di tale libertà, l’art. 16.1 prevede la garanzia della riserva di legge rinforzata: essa, infatti, può essere soggetta solo alle “limitazione che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”. A differenza dell’art. 13. qui non è presenta una riserva di giurisdizione; ne consegue che chi adotta il procedimento può essere anche la pubblica amministrazione. L “in via generale” lascia presupporre due cose:
  1. il costituente voleva ribadire la generalità delle legge collegata strettamente (in questo caso) al principio di eguaglianza;
  2. il costituente voleva marcare la differenza con l’art. 13 secondo la quale, laddove il provvedimento fosse adottato in base alla legge nei confronti di una pluralità, si sarebbe di fronte alla presunzione di un limite alla libertà di circolazione.
A sostegno di quest’ultima interpretazione sta il fatto che, spesso, non sempre è chiara la differenza tra libertà di circolazione e libertà personale. È necessario, per questo, distinguere i casi in cui un’apparente limitazione della libertà di circolazione concretizzi invece una violazione della libertà personale. Ebbene, si deve ritenere che siamo in presenza di una violazione della libertà personale ogni volta che un provvedimento presuppone una valutazione delle condizioni personali del destinatario e incide, dunque, sulla sua dignità umana e personalità morale. Ad esempio, un provvedimento di coprifuoco adottato nei confronti di un’intera collettività incide sulla libertà di circolazione, mentre un provvedimento adottato nei confronti del sorvegliato speciale è da ritenersi restrittivo della libertà personale. Il primo può essere adottato dall’autorità amministrativa, il secondo deve essere adottato dall’autorità giudiziaria. La Corte, però, ha stabilito che “in via generale” è stato pensato solo per ribadire il carattere di generalità della legge.
Lo Statuto albertino non conteneva alcuna disposizione sulla libera circolazione, ritenendola implicita nella libertà personale. Con il fascismo, invece, fu spesso limitata sia per combattere la fuga dalle campagne delle popolazioni rurali sia per controllare gli avversari politici. Di qui la costituente del 1948 specifica il divieto di ogni restrizione per ragioni politiche
L’art. 16.2 garantisce la libertà di espatrio, ossia la libertà di “uscire dal territorio dell Repubblica e rientrarvi, salvo gli obblighi di legge” (l’accertamento di eventuali responsabilità penali o l’adempimento dei doveri che competono ai genitori con figli minorenni, all’epoca del costituente il servizio di leva). A differenza di quanto veniva fatto nell’ordinamento albertino e nel regime fascista, nell’ordinamento repubblicano il rilascio del passaporto è un diritto soggettivo, e non più a discrezione dei pubblici ufficiali.
Vicina alla libertà di espatrio è la libertà di emigrazione, tutelata dall’art. 34.5 Cost.: si differenzia dalla prima per le motivazioni che ne stanno alla base (una forma di tutela del diritto al lavoro).

  1. LA LIBERTÀ DI DOMICILIO (art. 14)
L’art. 14 Cost. tutela la libertà di domicilio quale prolungamento della libertà personale, come proiezione spaziale della persona, indipendentemente dal titolo giuridico che lega il domicilio al soggetto. Tanto stretto è il legame con la libertà personale che il costituente ha esteso alla libertà di domicilio le garanzie previste nell’art. 13, prescrivendo così che le limitazioni tipizzate dalla norma costituzionale (ispezioni, perquisizioni, sequestri) possano avvenire solo nei casi e modi previsti dalla legge (riserva di legge), per atto motivato dell’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione).
Le perquisizioni domiciliari vengono disposte con decreto motivato dell’autorità giudiziaria, quando vi è fondato motivo di ritenere che il corpo del reato o cose pertinenti al reato si trovino in un determinato luogo o lì possa essere eseguito l’arresto dell’imputato. Nei casi di flagranza del reato o di ricerca di evasi, gli ufficiali di polizia giudiziaria possono procedere alla perquisizione domiciliare, ma è sempre richiesta la successiva convalida dell'autorità giudiziari.
L’espressione domicilio presenta diversi significati a seconda del settore normativo considerato (anagrafico-civile, penale, fiscale). La Costituzione dà una nozione penale di “domicilio” definiti quindi come “privata dimora”: è dunque tutelato dalla Costituzione un qualunque luogo, isolato dall’ambiente esterno, in cui la persona, in base a qualunque titolo giuridico, abbia diritto di rinchiudersi per coltivare i propri interessi, affetti o anche la propria attività professionale. 
Infine, per tutelare altri interessi costituzionalmente preminenti, il terzo comma dell’art. 14 introduce deroghe alle garanzie di cui sopra: così gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da legge speciali (permane comunque la garanzia di riserva di legge).

  1. LA LIBERTÀ E LA SEGRETEZZA DELLA CORRISPONDENZA E DI OGNI ALTRA FORMA DI COMUNICAZIONE (art. 15)
L’art. 15 Cost. garantisce a tutti la libertà di comunicare con una o più persone determinate, o determinabili, escludendo gli altri: chi, infatti, comunichi con una collettività indeterminata, senza volontà di escludere i terzi, non è tutelato dall’art. 15, bensì dall’art. 21 Cost. che riconosce la libertà di manifestazione del pensiero. 
La libertà e la segretezza della corrispondenza non erano tutelate nello Statuto albertino se non nella forma del segreto epistolare, unica forma di comunicazione privata. La Costituzione, invece, introduce accanto alla garanzia di segretezza anche l’affermazione della libertà di ogni comunicazione.
La libertà della comunicazione privata si realizza solo alla luce della segretezza delle stesse comunicazioni: la corrispondenza è libera solo se è segreta.
L’ampia tutela costituzionale comporta, affinché la libertà e la segretezza di comunicazione possano essere limitate, la duplice garanzia della riserva di legge e della riserva di giurisdizione, con esclusione di qualunque intervento dell’autorità di pubblica sicurezza. Questa scelta, che rende tale libertà maggiormente tutelata rispetto a quella personale e a quella di domicilio, nasce sia dalla difficoltà di ipotizzare casi di urgenza analoghi a quelli previsti dagli artt. 13 e 14, sia dall'opportunità di tutelare la segretezza della comunicazioni del terzo, che rischierebbe di risultare lesa. 
Coerentemente con tale impianto, la legislazione vigente in materia di sequestro di corrispondenza e intercettazioni di conversazioni o comunicazioni prevede sempre l’intervento preventivo dell’autorità giudiziaria, vale a dire il giudice delle indagini preliminari su richiesta del pubblico ministero. In particolare, le intercettazioni sono consentite solo per determinati reati, qualora ricorrano gravi indizi di reato e siano assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini, per una durata di quindi giorni. Diverso è il caso dei tabulati, ovvero dei dati esteriori delle comunicazioni telefoniche, che richiedono solo un decreto motivato dal pubblico ministero. 
Problemi sorgono in relazione all’applicabilità delle garanzie ex art. 15 alle nuove forme di comunicazioni tramite reti informatiche: la l. 547/1993 ha equiparato tali forme di comunicazioni a quelle tradizionali, estendendo a esse la disciplina penale dei delitti contro l’inviolabilità dei segreti. Tuttavia si deve verificare nelle singole applicazioni la sussistenza del requisito della determinatezza dei soggetti coinvolti e se esse debbano sottostare alle garanzie e alle limitazione dell’art. 15 o dell’art. 21.

------------------- I DIRITTI A ESPRIMERSI, A RICERCARE, A INSEGNARE  --------------------

  1. LA LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO (art. 21)
10.1. Il contenuto
L’art. 21 Cost. riconosce a tutti “il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Il diritto alla manifestazione del pensiero è uno dei diritti più preziosi per l’uomo fin dalla nascita dello stato liberale. L’assunto che ne sta alla base è il portato delle filosofie razionalistiche che si sviluppano tra il XVII e il XIV secolo: se ogni essere umano è diverso dall’altro, conseguentemente è diversa la realtà che ciascuno percepisce, come diverse sono le verità di cui ciascuno è portatore. La libertà di manifestazione del pensiero è anche una delle libertà fondamentali dello stato liberaldemocratico; del resto la democrazia si alimenta del confronti, ed allora deve essere libero. Inoltre viene riconosciuta la libertà di scelta del mezzo attraverso cui esprimersi. In base all’art. 21, chiunque può far conoscere a uno o a più destinatari indeterminati le proprie o altrui idee, opinioni, sentimenti attraverso i più vari mezzi e comportamenti (dalle parole scritte, a quelle orali, al corteo, musica, pittura ecc.). Tale libertà comprende anche il diritto al silenzio, il diritto cioè a non esprimere il proprio pensiero.

10.2. I limiti
La libertà di manifestazione del pensiero presente due tipi limiti.

  1. Un unico limite esplicito, previsto in Costituzione, il buon costume.
Il buon costume è diversamente interpretato a seconda dell’ambito in cui ci muoviamo. In ambito costituzionale, il concetto di buon costume viene ripreso dal codice penale ed è il comune senso del pudore e della pubblica decenza secondo il sentimento medio della comunità. Un altra definizione non poteva essere adottata dalla Costituzione: ad esempio il buon costume inteso come pubblica morale in ambito privatistico, si mal adatterebbe ad una diritto che vuole tutelare anche coloro che esprimono una controtendenza alla morale pubblica. Quindi, in virtù del favor liberatatis, viene scelta il concetto che porta con sé la restrizione minore. La contrarietà al sentimento del pudore di una manifestazione di pensiero dipende dall’offesa che può derivarne al pudore, considerati il contesto e le modalità in cui quegli atti sono computi. 
In relazione al buon costume, è importante il problema della libertà dell’arte: fino a dove può spingersi la libertà dell’arte? Esiste nel pensiero artistico-culturale-scientifico il limite del buon costume? Il fatto che la Costituzione riservi all’arte e alla scienza l’intero art. 33 sembra giustificare la tesi secondo cui l’opera d’are non è mai oscena; ma è prevista un disciplina diversa a seconda del mezzo scelto (per gli stampati nessuna forma di controllo, mentre, ad esempio, per gli spettacoli cinematografici sì).

  1. Una serie di limiti impliciti, derivanti dall’esigenza di tutelare altre libertà costituzionali o altri beni di rilevanza costituzionale.
I limiti impliciti si desumono da un’intera lettura del testo costituzionale in materia di libertà: il concetto base è che il godimento di una libertà da parte di un soggetto non può tradursi nell’avvilimento della libertà di un altro soggetto o nella lesione di un bene di rilevanza costituzionale. La manifestazione del pensiero deve bilanciarsi:
  1. con i diritti della personalità (si pensi ai reati che puniscono l'ingiuria e la diffamazione);
  2. con diritti di natura civilistica come il diritto d’autore e delle opere dell’ingegno;
  3. con il divieto di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali, della bandiera;
  4. con il divieto di pubblica apologia di reato idonea a provocare la violazione delle leggi penali (che elogia un delitto o il suo autore) o di istigazione a un reato.


  1. LA LIBERTÀ DI INFORMAZIONE E I MEZZI DI DIFFUSIONE DEL PENSIERO
La libertà di manifestazione del pensiero implica anche la libertà di informazione e tutte le sue derivazioni: il diritto ad informare, il diritto ad informarsi, il diritto ad essere informati. La Costituzione non prevede in modo esplicito il diritto all'informazione: nella sent. 12/1993 la Corte ha spiegato che l’art. 21 riconosce e garantisce a tutti la libertà di manifestare il proprio pensiero e tale libertà comprende il diritto di informare.
Presupposto indispensabile della libertà di informazione è che la vita istituzionale e politica dell'ordinamento sia improntata a un regime di pubblicità. In esso sono presenti però delle eccezioni limite in relazione alla disciplina dei segreti: il segreto professionale, il segreto aziendale e il segreto industriale (riconducibili alla libertà d’impresa tutelata all’art. 41 Cost.); il segreto d’ufficio (tutela del buon andamento e dell’imparzialità dell’attività amministrativa); il segreto investigativo (a tutela del doveroso proseguimento dei reati di cui all’art. 112 Cost.); il segreto di stato. Quest’ultimo, ai sensi della legge 124/2007, intende classificare gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cose la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali.
Il contenuti dell’art. 21 risulta inevitabilmente datato per quanto riguarda gli strumento di diffusione. Infatti:
  • l’unico mezzo di circolazione delle informazione espressamente evocato è la stampa
  • non garantisce, insieme alla libertà di stampa, anche il pluralismo e la libertà nella stampa (e ben poco è previsto per garantire la trasparenza e il pluralismo nell’editoria).
La disciplina cui la stampa è sottoposto si può così riassumere:
  1. la pubblicazione a mezzo stampa non è soggetta a controlli preventivi da parte di qualsiasi autorità pubblica: il costituente vuole chiudere il capitolo dell’epoca fascista che aveva portato con sé un aumento delle forme di censura);
  2. si può ordinare il sequestro di una pubblicazione solo in base a due presupposti: se ricorre una fattispecie di delitto espressamente prevista dalla legge sulla stampa (riserva di legge rinforzata) e solo in forza di un atto motivato dall’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione, di ufficiale di polizia giudiziaria);
  3. la pubblicazione deve rispettare i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero;
  4. la legge sull’editoria richiede che le imprese editoriali abbiano fini solo editoriali.
Quando si verificano i presupposti detti al punto 2, intervengono al sequestro gli ufficiali di polizia giudiziaria. La polizia giudiziaria è quel particolare nucleo delle forza di polizia (misti a carabinieri e finanziari) che è posta alla dipendenze funzionali del pubblico ministero. L’ufficiale di polizia giudiziaria dovrà fare denuncia all'autorità giudiziaria entro 24 ore (minor tempo rispetto a quello per gli ufficiali di polizia ordinaria). 
La legge può stabilire che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Il timore del costituente era quello di evitare monopoli dei mezzi di informazione. Viene così tutelata la pluralità dei mezzi di informazione in ambito di stampa.
Privi di disciplina costituzionale è invece il sistema radiotelevisivo. Inizialmente, con la sent. 59/1960, la Corte aveva riconosciuto la legittimità del monopolio statale, giustificando l’esclusione dei privati in base all’art. 43 Cost.: solo lo Stato avrebbe potuto svolgere tale servizio in condizione di imparzialità, completezza e obiettività. Inoltre la disponibilità delle frequenze era così limitata che era possibile legittimare questo monopolio.
Di lì a pochi anni l’evoluzione tecnologica permise di comprimere il messaggio radio-televisivo e, conseguentemente, ad aumentare le frequenze. Inizia, allora, a porsi il problema di chi debba gestire le nuove frequenze. 
Il primo passo fu allora la liberalizzazione delle reti televisive locali. Il gruppo Fininvest, il cui fondatore e azionista di maggioranza era (ed è) Silvio Berlusconi incomincia ad acquistare varie televisioni locali contigue a partire dalla Lombardia, senza però occupare frequenze nazionali, ma solo locali. Le sempre più numerose reti locali di Berlusconi incominciano a mandare in onda gli stessi programmi preregistrati, alle medesime ore ed il gruppo Fininvest si ritrova ad avere un effettivo monopolio nazionale. La Liguria si vuole staccare dalla catena delle reti di Berlusconi, ma il governo dell’epoca con un decreto non glielo concede, e permette la continuazione delle reti Berlusconi anche in Liguria.

Solo con la legge 6/1990 (legge Mammì) si impose il principio del pluralismo delle voci, quale valore costituzionale fondamentale. La legge Mammì codifica un sistema radiotelevisivo stabilendo uno duopolio Rai-Mediaset, le quali non avrebbero dovuto avere più di tre frequenze.
Inoltre, con la legge 223/1990 si prevedeva 
  1. un sistema radiotelevisivo a carattere misto pubblico-privato
  2. limiti alle concentrazioni nel settore televisivo con tetto pari al 25% delle reti nazionali
  3. limiti alla concentrazione tra imprese radiotelevisive ed editoriali, nonché alla concentrazione tra imprese radiotelevisive e concessionarie di raccolta della pubblicità
  4. obblighi a carico sia delle reti pubblica sia delle reti private: tra questi l’accesso ai gruppi di rilevante interesse sociale, la rettifica delle informazioni fornite, la mesa a disposizione per consultazioni degli archivi
  5. poteri di controllo affidati ad un'autorità garante.
È stata poi istituita l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, quale autorità amministrativa indipendente con compiti di controllo e di vigilanza anche su radiodiffusione ed editoria. 
Sulla legge Mammì interviene la Corte costituzionale con la sent. 420/1994 stabilendo l’incostituzionalità di tale legge, in quanto non garantiva un pluralismo delle fonti informative. La possibilità di immettersi sul mercato televisivo per altre televisioni private era limitata, questo perché i Rai-Mediaset detenevano il monopolio delle concessionarie pubblicitarie, unico modo di acquistare proventi per televisioni private. Allora con la legge 249/1997 (legge Maccanico) viene istruito un garante per le comunicazioni a livello regionale e ad egli spettava il compito di stabilire che, se la diffusione del satellite e del digitale non si fosse ancora affermata, Rai e Mediaset avrebbero dovuto cedere una delle loro tre frequenze analogiche, col fine di garantire una pluralità delle comunicazioni. Tuttavia la legge non fissava una data scadenza. Fu la Corte costituzionale a decidere, con la sent. 476/2002, che l'Autorità garante avrebbe dovuto stabilire entro il 31 dicembre del 2002. L’Autorità al termine della scadenza afferma che lo sviluppo delle reti satellitari si era portato a buon punto e la cessione delle frequenze da parte di Rai-Mediaset non era necessaria. Tuttavia lo sviluppo del digitale-satellitare era sì a livello infrastrutturale, ma a non a livello materiale: pochissimi italiani avevano accesso diretto a nuovi canali.
Infine, tutta la materia della comunicazione politica e delle trasmissioni elettorali su ogni tipo di rete è stata disciplinata da una legge ad hoc (la legge 28/2000 sulla par condicio).
Oggi, nel sistema radiotelevisivo il pluralismo può essere interno ed esterno. Il pluralismo interno è la garanzia che nell’informare l’opinione pubblica ciascun operatore dia rilievo a tutte le voci in campo dando un diritto di tribuna a tutte le posizioni politiche, religiose ecc. Il pluralismo interno è uno dei punti centrali del contratto di servizio tra Stato e la RaiTv S.p.a. (lo stato deve garantire una pluralità di opinioni). Tra televisione pubblica e private c’è una parità vincolante solo per la legge della par condicio sotto elezioni politiche. L’unica garanzia che lo Stato può attivare a livello di privati sta nel pluralismo esterno. Il pluralismo esterno consente allo stato, non di prevedere che il privato dia nel suo palinsesto voce a più opinioni, ma di fare in modo che il mercato radiotelevisivo si apra a diversi operatori, affinché si garantisca più voci, più opinioni.

  1. LA LIBERTÀ DI RELIGIONE E LA LIBERTÀ DI COSCIENZA (art.19)
Tra le libertà di pensiero si collocano anche la libertà di religione e la libertà di coscienza. Nel 1993 con la decisione Kokkinakis, La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ribadito che la libertà di religione è uno de fondamenti della società democratiche, bene prezioso anche per gli atei, gli agnostici e gli indifferenti. 
La Costituzione dedica alla libertà di religione l’art. 19: esso garantisce la libertà religiosa come libertà di fede e come libertà di pratica religiosa. Mentre nello Statuto albertino gi altri colti erano tollerati e concepiti solo in maniera individuale, oggi viene garantita ad essi libertà e possibilità di fare propaganda e praticare il culto collettivamente.
L'affermazione di questa libertà implica il suo aspetto negativo, va a dire la libertà di coscienza dei non credenti. Parte della dottrina sostiene, al contrario, che la libertà dell’ateo di esprimere le proprie convinzioni nei confronti della religione sia tutelata dall’art. 21, e non dall’art. 19.

  1. LA LIBERTÀ DELLA RICERCA SCIENTIFICA
La Costituzione afferma la libertà della scienza (art. 33.1) e affida alla Repubblica il compito di promuovere lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnica (art. 9.1). La libertà di scienza ha comunque dei limiti che garantiscano il principio personalista e la dignità e l’integrità umana, nonché il principio pluralista in relazione ai contenuti e ai mezzi della ricerca, cui ripugna qualunque forma di scienza ufficiale consueta agli stati totalitari o agli stati confessionali.
Quali sono in confini della scienza? Problemi nuovi sono posti da:
  1. le biotecnologie, ossia quel complesso di tecniche scientifiche multidisciplinari che mirano ad incidere sui processi biologici della materia vivente in campo umano, animale e vegetale, intervenendo sul patrimonio genetico.
  2. la procreazioni medicalmente assistita, facente parte delle biotecnologie, che scinde la riproduzione umana dall’atto sessuale.
  3. la questione della clonazione, nelle due forme della clonazione riproduttiva e terapeutica.
  4. gli Ogm, organismi geneticamente modificati.
In generale, la libertà della scienza della persona va bilanciata con la tutela di valori costituzionali di pari livello.

  1. LA LIBERTÀ DELLA E NELLA SCUOLA, IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE E IL DIRITTO ALLO STUDIO (art. 33-34)
L’art. 33 Cost., oltre a garantire la libertà dell’arte e della scienza, ne garantisce anche il libero insegnamento.
La libertà di insegnamento (o libertà nella scuola), come attività finalizzata all’educazione e alla diffusione della cultura, attiene sia ai mezzi sia ai contenuti dell’insegnamento stesso e gode di una tutela specifica rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero. Oltre al buon costume essa, però, deve tener conto di altri valori costituzionalmente tutelati (come ad esempio la pari dignità della persona umana).
La libertà di insegnamento riconosciuta al docente della scuola pubblica deve estrinsecarsi in un’attività tecnica, discrezionale nelle modalità, ma rispettosa degli obbiettivi che il legislatore ha posto rispetto ai quali la comunità nazionale deve sentirsi garantita.
La Costituzione affida allo stato il compito non solo di stabilire “norme generali sull’istruzione”, ma anche di istituire “scuole statali per tutti gli ordini e gradi”, prevedendo inoltre “un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi”. Il diritto di istituire scuole e istituti di educazione è parimenti riconosciuto a enti e a privati (art. 33.3.) ai quali per legge può essere riconosciuto di ottenere la parità con quelle pubblica, assicurando piena libertà a esse e ai suoi alunni un trattamento equipollente a quello delle scuole statali.
Accanto alla libertà nella scuola è dunque prevista la libertà della scuola: non solo possono coesistere scuole private e scuole pubbliche, ma l’alunno è libero di scegliere tra scuola pubblica o scuola privata. In base al terzo comma dell’art. 33 il diritto di istituire scuole private deve essere esercitato “senza oneri per lo Stato”.
Nel creare le scuole pubbliche lo Stato deve seguire i criteri indicati dall’art. 34 Cost.: la scuola deve essere
  1. aperta a tutti;
  2. obbligatoria per almeno otto anni;
  3. gratuita.
Il diritto all’istruzione deve essere inteso come diritto a ricevere un’adeguata istruzione ed educazione per la formazione della personalità e l’assolvimento dei compiti sociali della persona. A questo fine la Costituzione garantisce il diritto allo studio, secondo cui “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Ciò significa che devono essere garantiti i mezzi finanziari per rendere ciò effettivo (comma 4)
In basse all’art. 33.6 le università hanno il diritto di darsi ordinamento autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. l’autonomia universitaria non è intesa a tutelare interessi corporativi, ma a tutelare sia la libertà dell’insegnamento sia la libertà della ricerca scientifica. Allora si concede alle università uno statuto e un “governo autonomo” attraverso organi accademici formati in prevalenza dagli stessi docenti e ricercatori. La riserva di legge, sempre del sesto comma, è stata spesso violata nella prassi attraverso limiti all’autonomia universitaria posti sulla base di regolamenti governativi o ministeriali.

---------------------------------------- I DIRITTI ASSOCIATIVI  ----------------------------------------------

  1. LA LIBERTÀ DI RIUNIONE (art. 17)
La libertà di riunione è garantita dall’art. 17 Cost. ai soli cittadini (fermo restando la legittimità della tutela a livello non costituzionale per gli stranieri); la ratio di questa limitazione va cercata nel legame storico tra il riconoscimento della libertà di riunione e la tutela del diritti di esercitare legittimamente pressioni sui pubblici poteri. Il limite necessario, tutt’ora presente in diverse costituzioni contemporanee, è lo svolgimento della riunione in modo pacifico e senz’armi (art. 17.1)
  • Riunione”: il radunarsi volontario in luogo e tempo predeterminati di una pluralità di persone che perseguono uno scopo comune prestabilito.
Caratteristiche della riunione, che la differenziano dall’associazione, sono: 
  • la temporaneità;
  • l’assenza di vincolo giuridico tra i partecipanti;
  • l’assenza di una struttura organizzativa.
Non sono perciò tutelati gli assembramenti, cioè confluenze casuali, in luogo pubblico, di persone che non perseguono uno scopo prestabilito. Lo sono invece le riunioni in movimento (cortei, processioni). A differenza della riunione, l’assembramento non ha tutela.
Il limite di ordine generale, come detto, prevede che lo svolgersi della riunione non avvenga in modo violento contro persone o cose e che non vi partecipino persone armate. Qualora si contravvenisse a questa disposizione, le autorità pubbliche provvederanno ad allontanare solo coloro che risultino armati, eventualmente arrestandoli, col fine di tutelare il diritti di riunirsi degli altri partecipanti.
Nei due commi successivi la Costituzione adotta la tradizionale distinzione tra:
  1. riunioni in luogo privato, o semplicemente riunioni private;
  2. riunioni in luogo aperto al pubblico, ovvero quelle riunioni in un qualsiasi luogo (es. stadio, cinema, teatro), in cui potenzialmente tutti i soggetti hanno libero accesso a determinate condizioni:
  • sulla base dell'esibizione di un titolo di legittimazione (ad es. il biglietto);
  • sulla base di determinate regole che sono previste (ad es. orario di apertura). 
Per questi primi due tipi di riunioni la disciplina prevede che non è richiesto preavviso all’autorità di pubblica sicurezza.
  1. riunioni in luogo pubblico (es. strada, piazza): per essa la Costituzione prevede necessario che ci sia un preavviso di almeno tre giorni prima del suo svolgimento da comunicare la questore. Questi potrà vietarla solo per “comprovati motivi di sicurezza e di incolumità”.
Un motivo è comprovato se:
  • è specifico in riferimento al casi di specie e non semplicemente riproduttivo della formula costituzionale;
  • comporta che il divieto posa riguardare solo singole riunioni;
  • sussistono concrete possibilità di turbamento dell’ordine pubblico.
Il preavviso (non autorizzazione) non è però condizione di legittimità della riunione, per cui la sua omissione non ne giustifica di per sé lo scioglimento: se mai, è fonte di responsabilità, giuridicamente sanzionabile, per i promotori. Quindi si prevede, non un obbligo, ma un onere di preavviso.
Un regime di particolare favore è previsto per le riunioni elettorali, o comizi, per le quali non è previsto l’obbligo di preavviso e il cui svolgimento è garantito dalla legislazione penale che punisce come reato l'impedimento o la turbativa di una riunione elettorale (limite: riunioni elettorali vietate lo stesso giorno e il giorno prima delle elezioni).

  1. LA LIBERTÀ DI ASSOCIAZIONE (art. 18)
La libertà di associazione fu a lungo osteggiata da coloro che consideravano ostile tutto ciò che si interponesse fra cittadino e stato. Il disfavore verso le libertà di associazione si trasformò, nel periodo fascista, in repressione (scioglimento dei partiti, divieto di costituire sindacati). La libertà di associazione è sancita dall’art. 18 Cost).
  • Associazione”: un’organizzazione di individui, legati dal perseguimento di un fine comune e, sopratutto, da un vincolo che, pur non attenendo all’ordinamento statale, presenta natura giuridica.
Proprio l’esistenza tra gli associati di tale vincolo giuridicamente rilevante è l’elemento più caratteristico dell’associazione rispetto alla riunione, nonostante la distinzione tra l’una e l’altra si fondi tradizionalmente sulla tendenziale stabilità della prima e la temporaneità della seconda. In base all’art.18è è riconosciuta ai cittadini:
  • la libertà di associazione, ossia la possibilità per più cittadini di costituire associazione senza la necessità di permessi o autorizzazioni;
  • la libertà delle associazioni, ossia la possibilità di formare un numero indefinito di associazioni, anche perseguenti lo stesso scopo;
  • la libertà negativa di associazioni, per cui nessuno può essere costretto ad aderire a una associazione (la facoltà di non esercitarla).
A tal proposito suscitano un problema le associazioni obbligatorio, l'adesione alle quali è importa per l'esercizio di determinate attività. La Corta costituzionale ha decretato queste illegittime se necessarie per perseguire fini pubblici, a loro volta costituzionalmente garantiti.
Quanto ai limiti, vi è un limite generale e due limiti specifici. Ll’art. 18.1 vieta l'esercizio della libertà di associazione per il perseguimento di fini vietati ai singoli dalla legge penale: sono quindi ammesse tutte le associazioni purché non aventi fini vietati ai singoli dalla legge penale. Sono quindi ammesse anche le associazioni che si pongano in contrasto con i valori costituzionali, tranne un’eccezione (la XII disp. trans. e fin.): la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista (in Germania invece sono vietate anche le organizzazioni dirette contro l’ordinamento costituzionale). Il codice penale vieta comunque le associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico.
Nel 1979 fu sciolto il partito Ordine Nuovo, considerato riorganizzazione vecchio partito fascista. Entrò invece in Parlamento il Movimento sociale italiano, il quale si richiamava alle idee del partito fascista. Da questo si capisce che quello che conta è la volontà di ripercorrere quell’esperienza politica, non il riappropriarsi delle idee.
Quanto ai limiti specifici, l’art.18.2 impedisce la libertà di associazione a:
  1. le associazioni segrete. Non è la segretezza in sé a essere vietata in un’associazione (anche se la Costituzione vuole che il fenomeno associativo sia il più visibile possibile), ma la segretezza unita al fine di condizionare i pubblici poteri, interferendo sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali. La ratio è dunque quella di evitare che fini eversivi vengano perseguiti in segreto. 
Nel 1982 la Corte interpretò più restrittivamente l’art. 18 e puntualizzò quanto detto sopra, alla luce dello scandalo della loggia massonica P2. La loggia massonica P2 era un’associazione radicata in diversi settori del mondo politico e non (governo, parlamento, forze di polizia, ministri di culto), che, si sospettava, tramasse segretamente per attuare un’involuzione autoritaria del nostro ordinamento. La legge 17/1982, nel primo articolo, sciolse la loggia massonica P2 (configurandosi come una legge-provvedimento), ma dal secondo articolo evidenzia quel fine di eversione dell’ordinamento costituzionale collegato alla segretezza dell’associazione. 
  1. le associazioni di carattere militare. Le associazioni che perseguono scopi politici mediante associazioni caratterizzate da qualsiasi struttura gerarchica di tipo militare, con relativo inquadramento in “corpi, reparti, o nuclei”, non necessariamente unita all’uso di armi. La ratio è quella di tutelare la libera dialettica politica che altrimenti sarebbe lesa da organizzazioni potenzialmente violente (come è accaduto col fascismo in Italia). Memore di ciò, la legge vieta l’adozione di qualsiasi uniforme da parte di associazioni aventi finalità politiche. 
In merito a ciò, ci sono state polemiche che hanno portato la giurisprudenza a posizioni altalenanti: negli anni ’70 la polemica sulla sfilata delle neo-SS nel Süd Tirol; e più di recente, l’organizzazione delle camice verdi della Lega Nord, costruite su struttura gerarchica, quasi para militare. 

-------------- LE FORMAZIONI SOCIALI A RILEVANZA COSTITUZIONALE ---------------

  1. LA FAMIGLIA (art. 29-30)
La Costituzione considera la famiglia quale “società naturale fondata sul matrimonio”.
Quindi, dal primo comma dell’art. 29, si desume che la Costituzione mostra un favor per la famiglia legittima, fondata cioè sul matrimonio, e non sulla convivenza di fatto. Per matrimonio deve intendersi sia il matrimonio civile sia quello concordatario, celebrato secondo il diritto canonico, a cui vengono riconosciuti gli effetti civili.
All’art. 30.1 la Costituzione prende in considerazione anche la famiglia di fatto stabilendo il diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli “anche se nati fuori dal matrimonio”. A queste garanzie si aggiunge che la generale tutela dell’art. 2 riconosce alle “formazioni sociali” ove si svolge la personalità dei singoli, tra le quali rientrano anche le convivenze di fatto, compresa la convivenza di coppie omosessuali. 
Ulteriore principio in materia di famiglia è quello dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29.2) che ha trovato attuazione con la riforma del diritto di famiglia del 1975, la quale ha promosso l’eguaglianza tra i coniugi. In questo ambito la Corte costituzionale ha invitato il legislatore a rivedere la norme che assegna automaticamente il solo cognome del padre ai figli, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna (sent. 61/2006).

  1. LE MINORANZE LINGUISTICHE (art. 6)
L’art. 6 tutela le minoranze linguistiche stabilendo, però, solo un principio generale. Con riserva di legge rinvia alla legge la definizione delle popolazioni garantite e degli strumenti di tutela. L’attuazione dell’art. 6 è avvenuta solo con l legge 482/1999, nella quale venivano elencati i destinatari della normativa, demandando alle province la delimitazione degli ambienti territoriali della disciplina. Nel testo vengono poi indicate le misure di tutela delle lingue di minoranza, prevedendo per esse:
  1. l’utilizzazione e insegnamento nelle scuole;
  2. la possibilità in uso pubblico (nelle pubbliche amministrazione, per atti pubblici, ne procedimento davanti al giudice ecc.)
  3. l’utilizzazione per la toponomastica, per i nomi e nei mezzi di comunicazione di massa. 
Sul tema è altresì intervenuta la Convenzione Unesco sulla protezione e promozione della diversità delle espressioni linguistiche.

  1. LE COMUNITÀ RELIGIOSE (art. 7-8)
La Costituzione disciplina i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica all’art. 7. In base a questo:
  • la Chiesa cattolica è riconosciuta come ordinamento giuridico originario, nato per forza propria, ed è posta allo stesso piano dello Stato, ma “ciascuno nel proprio ordine”.
  • i rapporti tra i due ordinamenti sono disciplinati dai Patti Lateranensi (stipulati l’11 febbraio del 1929) il richiamo dei quali non implica una loro costituzionalizzazione.

La Costituzione disciplina i rapporti tra Stato e altre confessioni religiose all’art. 8. In base a questo: 
  • le altre confessioni religiose hanno la loro autonomia organizzativa nel rispetto dell’ordinamento giuridico italiano
  • la definizione dei rapporti tra Stato e confessioni avviene attraverso intese, recepite in leggi che, essendo modificabili solo a seguito di nuovi accordi con confessioni, sono ascrivibili alla categoria delle leggi rinforzate.
Il comma 1 dell’art. 8 Cost. sancisce l’uguaglianza di libertà tutte le confessioni religiose davanti alla legge. Significativamente, non viene sancita l'uguaglianza delle diverse confessioni nel trattamento giuridico (cosa che probabilmente mortificherebbe le peculiarità di ognuna), ma la pari eguaglianza nella libertà. Questa affermazione garantisce ad esse la possibilità di esercitare, senza limitazioni e a parità di condizioni, ogni libertà e in particolare quella religiosa (ex art. 19).
Fra le confessioni diverse dalla cattolica, il fatto di non aver stipulato un’intesa con lo Stato non può costituire motivo di discriminazione. Le intese non possono essere “una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire della libertà di organizzazione e di azione loro garantita dal primo e dal secondo comma dell’art. 8.
Il principio di eguale libertà è stato oggetto di un’interpretazione fortemente discriminatoria nei confronti delle altre confessioni rispetto alla cattolica: la Corte costituzionale ha in passato legittimato una tutela penale rinforzata della religione cattolica, che si traduce di fatto in limitazione della libertà religiosa della altre confessioni. Ciò veniva giustificata con criterio quantitativo: la religione cattolica è professata dalla maggioranza dei cittadini italiani. Ma dopo l’Accordo del 1984 la giurisprudenza ha cambiato orientamento, sottolineando la vigenza nel nostro ordinamento del principio di laicità, inteso non come indifferenza verso il fenomeno religiose ma come equidistanza nei confronti di tutte le confessioni religiose.
Recentemente la questione dell’obbligatorietà dell’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche ha fornito nuovi elementi di riflessione del principio di laicità. Il Consiglio di stato (sez. VI, sent. 556/2006), su ricorso di una coppia di genitori che chiedeva la rimozione del crocifisso dalla aule di una scuola media, ha confermato tale obbligo. La Corte costituzionale, tuttavia, non ha ancora colto l’occasione per pronunciarsi in merito. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha invece ritenuto l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche contraria alla Cedu. 

----------------------- I DIRITTI ATTINENTI AI RAPPORTI ECONOMICI --------------------------

  1. LA PROPRIETÀ PRIVATA E L’INIZIATIVA ECONOMICA PRIVATA (art. 41-42-43)
20.1. Il diritto di proprietà
L’art. 42 Cost. costituisce una delle norme fondamentali della costituzione economica (insieme di norme comprese nel titolo III della parte I della Costituzione. Infatti la tutela costituzionale della proprietà privata ha un rilievo decisivo perché proprio su questo istituito si sono fondate le costituzioni liberali e le codificazioni civilistiche conseguenti.
Il primo comma stabilisce che la proprietà è “pubblica o privata”, senza specificarne l’intensità di tutela. Il comma numero 2 afferma che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge...”. Il costituente ha quindi voluto devolvere al legislatore ordinario la determinazione dell’intera disciplina riguardante la proprietà, a un punto tale che la legge potrebbe limitarla a sua totale discrezione. Quest’orientamento è sbagliato poiché 1) non valorizza il dettato costituzionale in base al quale la proprietà privata deve essere comunque “riconosciuta e garantita”; 2) vi sono altre norme costituzionali che garantiscono e disciplinano diverse forme di proprietà privata (ad es. imprese, proprietà terriera, proprietà dell’abitazione).
Dare un significato al termine “proprietà” è cosa molto ardua. Una delle tante potrebbe essere “il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno esclusivo”. Tuttavia essa non presenta un significato univoco. Allora la Corte costituzionale adotta un criterio interpretativo che è quello della funzione sociale, intesa come clausola della doppia natura limitativa: 1) limitazioni alla proprietà privata se interferisce con diritti o valori costituzionali; 2) limitazioni alla proprietà privata solo quando un’eventuale restrizione sia stabilita al fine di “assicurarne la funzione sociale.
In relazione a quanto trattato, il terzo comma propone un problema che rappresenta uno dei temi di politica legislativa più delicati e sensibili: l’espropriazione. 
  • Espropriazione”: quel provvedimento amministrativo mediante il quale il titolare di un diritto di proprietà su di un bene viene privato delle facoltà che gli competono a favore di un diverso soggetto, solitamente (ma non esclusivamente) pubblico.
Questa lettura dell'istituto non è pacifica in dottrina. Per diminuire tale privazione, la Corte ha stabilito l'indennizzo. Esso non deve corrispondere all'integrale risarcimento del danno economico arrecato dall’esproprio, anche se va quantificato in modo seri, congruo e adeguato e non deve consistere in una cifra di carattere meramente simbolico o non legata alla natura del bene espropriato. Si deve trattare, in sostanza, di una “equa indennità”. 

20.2. Il diritto di iniziativa economica
L’art. 41 Cost. tutela l’iniziativa economica privata e contemporaneamente pone limiti a essa. Dalla lettura di tale articolo si trae che il costituente ha voluto delineare un sistema economico in cui l’iniziativa economica non è soltanto pubblica, né solamente privata. In tal senso, il comma numero 3 sancisce che la legge può indirizzare e coordinare “a fini sociali” tanto “l’attività economica pubblica” quanto quella “privata”, le quali vengono così a porsi in posizioni subordinate all’attività regolativa pubblica.
Il limite essenziale dell’iniziativa economica privata è l’utilità sociale. Va detto che, rispetto ad altre libertà costituzionalmente garantite, la Costituzione appronta qui forme di tutela meno intense. Non si può tuttavia ritenere che il dispiegarsi dell’iniziativa economica privata sia in alcun modo positivamente vincolato o programmato a prescindere da un’esplicita disposizione di legge. Tutt’al più l’art. 41 conferisce al legislatore il compito di ricercare, caso per caso, il giusto equilibrio tra l’esercizio della libertà di iniziativa economica privata e altri valori costituzionalmente rilevanti.

L’art. 43 Cost. stabilisce che la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione ed indennizzo, determinate imprese a servizi pubblici in relazione a determinati settori. L’art. 43 non vuole però giustificare incondizionatamente settori economici allo Stato, bensì, con una riserva di legge rinforzata, vengono delineati i casi particolari in cui lo Stato può procedere alla nazionalizzazione o alla collettivizzazione. Ciò perché l’espropriazione deve: 1) soddisfare i “fini di utilità generale”; 2) deve essere indennizzato; 3) deve concernere servizi pubblici essenziali, fonti di energia, o situazioni di monopolio che abbiano carattere di preminente interesse generale.

La ricostruzione della libertà di iniziativa deve inoltre tenere conto della disciplina a livello di Ue, fondata sul “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” e caratterizzata da regole comuni riguardanti la libera circolazione di capitali, merci, servizi e lavoratori e la concorrenza tra le imprese all’interno del mercato unico.
Soprattutto negli anni Novanta, per contrarre sottostare alle direttive europee, l’ordinamento ha preceduto alla privatizzazione di importanti settori dell’economia in mano pubblica o, in altri casi, stabilendo regole sia per evitare il formarsi di posizioni dominanti sia per evitare intese restrittive ai danni dei consumatori.
A tale scopo nel 1990 è stata istituita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (antitrust) che opera in stretta cooperazione con la Commissione europea.

  1. LE LIBERTÀ SINDACALI E IL DIRITTO DI SCIOPERO (art. 39-40)
All’interno dell’art. 18, la Costituzione prevede un disciplina specifica per i sindacati, chiamati a svolgere compiti di tutela professionale nei confronti degli associati. 
L’art. 39.1 Cost. tutela la libertà di organizzazione sindacale e ne garantisce la pluralità. Il secondo comma prevede che non possa essere imposto nessun obbligo al sindacato se non la registrazione presso uffici locali o centrali, secondo norme di legge; il terzo comma prevede che essi sanciscano un ordinamento di carattere democratico; il quarto si stabilisce che essi hanno personalità giuridica.

L’art. 40 Cost tutela il diritto di sciopero, ovvero l’astensione di uno o più lavoratori dall’attività lavorativa. Lo sciopero non viene configurato solo come attività lecita, ma anche come diritto, sia pure da esercitare “nell’ambito delle leggi che lo regolano”.
Diversa è la serrata, cioè la chiusura totale o parziale dell’impresa da parte del datore di lavoro, considerata una manifestazione lecita, non più penalmente perseguibile, ma non vero e proprio diritto.
Del diritto di sciopero possono avvalersi i lavoratori subordinati (pubblici e privati), e anche quelli autonomi, ma non gli imprenditori.
Si è affermata anche la tutela costituzionale dello sciopero economico, ossia quello posto in essere dai lavoratori per qualsiasi tipo di rivendicazione di natura salariale o lato sensu economica. Successivamente, però, la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità dello sciopero esercitato dai lavorato anche la la tutela di interessi che esorbitino da finalità strettamente economiche, purché non comprometta funzioni o servizi pubblici essenziali, volti a tutela interessi di preminente natura generale, costituzionalmente garantiti.
È stato poi dichiarato legittimo anche lo sciopero politico, a condizione che non sia diretto a impedire o ostacolare l’esercizio dei poteri legittimi.
Ulteriori limiti sono stati individuati dalla Corte nella garanzia delle libertà civili, politiche o sociali e dei diritti costituzionalmente garantiti dai singoli.
Il diritto di sciopero è esercitabile solo in modo pacifico e include la libertà del lavoratore di non prendere parte ad esso. Lo sciopero deve essere qualificato come un diritto soggettivo dei lavoratori in quanto tali, ovvero della persona umana, poiché, pur condizionato dall’esistenza di un rapporto lavorativo, esso è costituzionalmente legittimo anche se indetto per sostenere le rivendicazione di altri lavorati nei confronti dei loro datori di lavoro (sciopero di solidarietà).
Esso è strettamente collegato all’art. 3 e si pone come strumento di partecipazione alla vita della repubblica.
Con la legge 146/1990 si è specificatamente indicato i limiti allo sciopero nei servizi pubblici essenziali (sanità, igiene pubblica, protezione civile, trasporti pubblici), in quanto tali servizi influiscono sulla fruizione e sulla garanzia dei diritti altri costituzionalmente tutelati. Per tale motivo deve essere assicurata l’erogazione delle “prestazioni minime” indispensabile. La legge prevede anche la possibilità di precettazione dei lavoratori in sciopero in caso di mancato rispetto di tali disposizioni.

---------------------------------------------- I DIRITTI SOCIALI ----------------------------------------------

  1. I DIRITTI NELLO STATO SOCIALE
La categoria dei diritti sociali trae il proprio fondamento dalla necessità di assicurare prestazioni dei poteri pubblici uguali per tutti e tali da riequilibrare le posizioni dei singoli all’interno della società. In tal senso si parla di libertà attraverso lo stato. La tutela di diritti sociali è stata oggetto di un lungo processo storico che ha portato dallo stato democratico allo stato liberaldemocratico. 
La differenza tra i diritti di libertà e i diritti sociali sta nel fatto che questi ultimi, come diritti i prestazione da far valere nei confronti dello stato, valgono come pretesa del singoli affinché la Repubblica intervenga per renderli effettivi, anche mettendo in bilancio le necessarie risorse finanziarie. Essi sono altresì legati strettamente all’organizzazione e all’efficienza degli apparati pubblici.
Nello stato liberale le prestazioni che costituiscono il contenuto degli attuali diritti sociali erano fornite da istituzioni private (famiglia, istituti di beneficenza e carità). Solo a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento molti stati, tra cui la Germania di Bismarck, attuarono riforme capaci di porre le premesse per l’edificazione dei diritti sociali.
La prima costituzionalizzazione dei diritti sociali risale alla costituzione tedesca di Weimar (1919): dopo la Seconda guerra mondiale si assistette a un ampio riconoscimento dei diritti sociali, nonché al loro in varie dichiarazioni internazionali.
I principali diritti sociali contemplati nella nostra Costituzione sono:
  • il diritto al lavoro, di diritti dei minori e delle donne lavoratrici, il diritto all’educazione e all’avviamento professionale per inabili e minorati
  • il diritti all’assistenza sociale per gli inabili e il diritto alla previdenza in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria.
  • il diritto alla tutela della salute
  • il diritto all'istruzione e il diritto allo studio.

  1. IL DIRITTO AL LAVORO (art. 4)
L’inserimento dell’art. 4 tra i principi fondamentali incide profondamente sulla stessa forma di stato, definita “Repubblica fondata sul lavoro” (abbiamo già visto il principio lavorista ispiratore della Costituzione). Il secondo comma dello stesso articolo prevede il dovere per il cittadini di svolgere “un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. 
La disposizione, come tutte le disposizioni costituzionali, ha natura precettiva ma poiché richiede l'intervento dei pubblici poteri per rendere effettivo il diritto al lavoro, è anche norma promozionale, la quale vincola i pubblici poteri a perseguire una politica di piena o maggiore occupazione. Ma un diritto al posto di lavoro, tutelabile in forma di diritto soggettivo, non è configurabile nel nostro ordinamento. Tuttavia il diritto al lavoro, anche se di per sé non idoneo a garantire al cittadino un’occupazione, è considerato dalla Corte costituzionale “inviolabile” ex art. 2 Cost.
Nell’art. 4 vi sono altri significati di natura precettiva:
  1. Le libertà del cittadino di scegliere l’attività lavorativa o professionale da esercitare. Essa si sostanzia in due ulteriori posizioni soggettive:
  1. la libertà di non subire limitazioni irrazionali nell’accesso al lavoro;
  2. la libertà di eserciate un lavoro o una professione adeguati alla proprie capacità.
  1. La fase risolutiva del rapporto di lavoro subordinato è costituto dal diritto del lavoratore a non essere licenziato in modo arbitrario: il licenziamento non può verificarsi se non in presenza di una giusta causa o un giustificato motivo. L’art. 18 della l.300/1970 prevede l’obbligo di reintegrazione del posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato nell’azienda con più di quattordici dipendenti.
Vi sono altri diritti sociali legati al lavoro (artt. 35-38 Cost.) che costituiscono una specificazione del più generale art. 4:
  • il diritto ad una giusta retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del suo lavoro e sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36.1);
  • il diritto al riposo settimanale e alle ferie, ai quali non si può rinunciare (art. 36.3);
  • il diritto di parità di trattamento lavorativo di donne e minori (art. 37.1 e 3)
Rimane invece condizionato al legislatore il diritto degli inabili e dei minorati all'istruzione e all’avviamento professionale (art. 38.3).

  1. IL DIRITTO ALL’ASSISTENZA E ALLA PREVIDENZA (art. 38)
L’art. 38 garantisce l’assistenza e la previdenza sociale. Il primo comma garantisce l’assistenza sociale nei confronti di “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”; mentre il secondo comma assicura ai lavoratori la previdenza sociale in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria, mediante l’erogazione di pensioni, assegni, o assicurazioni contro infortuni.
L’assistenza viene erogata dalla pubblica amministrazione, la previdenza sociale dallo Stato.
La giurisprudenza costituzionale considera norme precettive tanto il primo quanto il secondo comma, i quali attribuiscono diritti soggettivi perfetti, giudizialmente applicabili. Se il diritto all’assistenza compete solo al cittadino in quanto inabile, il diritto di previdenza sociale compete a tutti i lavoratori, a prescindere dalla natura dell’attività lavorativa esercitata.
Si tratta di diritti sociali che hanno per soggetto la pretesa di fruire di determinate prestazioni di sicurezza sociale, il cui livello minimo di tutela deve essere garantito dai pubblici poteri attraverso le risorse statali. Tocca quindi al legislatore contemperare la tutela dei bisogni sottesi all’art. 38 con le disponibilità finanziarie della Repubblica. 
A partire dagli anni Novanta, proprio per esigenze di bilancio, il sistema pensionistico è stato riformato più volte (da ultimo alzando sensibilmente l’eta pensionabile). Queste riforme hanno introdotto la disciplina delle pensioni complementari e integrative e modificato il metodo di calcolo della pensione passando dal sistema retributivo (importo pensionistico calcolato secondo una percentuale delle ultime retribuzioni) a quello contributivo (ammontare della pensione rapportato ai contributi che il lavoratore ha effettivamente versato nell’arco dell’intera vita professionale).

  1. IL DIRITTO ALLA SALUTE (art. 32)
Il diritto alla salute è tutelato dall’art. 32 Cost. che lo ritiene fondamentale per l’individuo e di interesse per la collettività. Esso è ascrivibile ai diritto fondamentali tutelati all’art. 2 Cost.
Pur essendo un diritto sociale, ha una natura assimilabile a quella dei diritti di libertà, poiché presuppone la titolarità di uno status personale e naturale (la salute) che non può essere messo a repentaglio né dai singoli né dai poteri pubblici né dai altri soggetti: è un diritto soggettivo rivolto a tutti. La Corte di cassazione ha più volte affermato che la salvaguardia della salute rappresenta un diritto primario della persona, dal quale scaturisce il diritto al risarcimento di eventuali danni.
Da parte sua, il legislatore dopo aver esteso la tutela della salute dei lavoratori anche in via preventiva con apposite norme contenute nello statuto dei lavoratori, ha dato attuazione piena al diritto alla salute con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale: ha costruito un servizio di tipo universale, proclamando la necessità di garantire il mantenimento e il recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali. Resta fermo, tuttavia, che il diritto alle prestazioni sanitarie deve essere sottoposto a bilanciamento, cioè deve essere compatibile con le esigenze di equilibrio della finanza pubblica.
Il diritto a ricevere i trattamenti sanitari è desumibile da tre specifiche situazioni contenute nell’art. 32:
  1. il diritto alla salute presuppone il diritto a ricevere i trattamenti sanitari necessari;
  2. il diritto degli indigenti a cure mediche gratuite;
  3. il divieto di trattamenti sanitari obbligatori se non per disposizione di legge e nel rispetto della persona umana. Solo in casi eccezionali, indicati tassativamente dalla legge, possono essere previsti trattamenti sanitari obbligatori a tutela della collettività (vaccinazioni o forma di isolamento per combattere malattie epidemiche).
Più complesso il caso in cui i trattamenti riguardino la tutela della salute della stessa persona affetta da malattie psichiche. Dopo l’approvazione della legge 180/1978 (legge Basaglia) sono stati aboliti i ricoveri coatti dei malati di mente nei manicomi, sostituiti da trattamenti ambulatoriali o da ricoveri volontari; misure circondate da particolare garanzie.
Fermo restando il diritto del paziente a rifiutare le cure (anche se esposto al rischio di morte), rimangono aperti alcuni rilevanti problemi: può il genitore rifiutare il trattamento terapeutico ritenuto necessario per un minore dai medici? In tali casi la giurisprudenza dei tribunali dei minori è ordinata a nominare un tutore cui demandare ogni decisione in ordine al trattamento sanitario.
Altro problema è quello del cosiddetto “accanimento terapeutico” nei confronti di chi non è in grado di dare il proprio consenso al proseguimento delle cure. Da diversi anni si discute del testamento biologico, vale a dire una formale dichiarazione anticipata di volontà della singola persona, riconosciuta per legge, circa il trattamento sanitario cui vuole o non vuol essere sottoposto nel caso in cui si trovasse in condizione di non poter manifestare una volontà libera e consapevole. In Italia la sent. 21748/3007 della Corte di cassazione, in riferimento al caso di Eluana Englaro in stato vegetativo permanente da circa quindici anni, ha deciso che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzare l’interruzione del trattamento sanitario in presenza di due circostanze concorrenti:
  1. che la condizione di stato vegetativo del paziente sia irreversibile, senza alcune si pur minima possibilità, secondo standard scientifici, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione
  2. che sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, della sua personalità e dei convincimenti etici, religiosi, culturali che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consento alla continuazione del trattamento.
Tuttavia, la Corte costituzionale (ord. 334/2008) dichiaro la sentenza della Corte di cassazione inammissibile ritenendo che questa non avesse interpretato il diritto vigente bensì avesse creato nuovo diritto. La sentenza allora ebbe efficacia solo per il caso in specie.

  1. IL DIRITTO ALL’ABITAZIONE
Il diritto all’abitazione è riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 25). Ma il diritto alla casa, nella sua accezione più pregnante di diritto a ottenere un alloggio, non costituisce in realtà un autentico diritto. L’art. 47.2 Cost., infatti, non può essere richiamato per individuare un diritto all’abitazione distinto dal diritto di “proprietà dell’abitazione”. Esso costituisce piuttosto un interesse preminente di rilevanza costituzionale, rivolto a soddisfare un’esigenza di carattere primario, che impegna tutti i pubblici poteri alla sua tutela attraverso un’adeguata politica economica e finanziaria.
La Corte costituzionale ha qualifica come un vero e proprio diritto la pretesa all’abitazione, in quanto situazione giuridica strumentale rispetto ad altre condizione oggettive di bisogno. La Corte, in particolare, ha riconosciuto il diritto all’abitazione del convivente more uxorio, quale diritto inviolabile della persone ex art. 3 Cost a garanzia di un’esistenza dignitosa per il singolo e per i propri figli.

  1. I DIRITTI CONTRO I DIRITTI
La Costituzione riconosce e garantisce una pluralità di diritti e valori fondamentali, i quali tuttavia possono entrare in conflitto tra loro. I conflitti possono essere di due tipi:
  1. conflitti tra diritti fondamentali (ad es. diritto di cronaca-diritto alla privacy);
  2. conflitti tra diritti ed esigenze collettive (ad es. libertà di iniziativa economica-protezione dell’ambiente; libertà di manifestare-tutela dell'incolumità pubblica).
I limiti alle libertà, di norma, sono espressamente previsti da singole disposizioni costituzionali (limiti espressi): ad es. la libertà di manifestazione del pensiero non può essere contraria al buon costume. Tuttavia, la problematica dei limiti ai diritti non si risolve nei soli casi in cui la Costituzione provvede in maniera esplicita. Ciò perché l’esistenza di più diritti ha come conseguenza che il diritto di uno trova il proprio limite nel diritto dell’altro (limiti impliciti). La prima sentenza della Corte costituzionale sanciva che “ il concetto di limiti è insito nel concetto di diritto”. Nei casi in cui siamo di fronte a conflitti, i diritti e i beni collettivi devono essere bilanciati innanzitutto da parte del legislatore, nel dettare una determinata disciplina giuridica, nonché, in sede di controllo di costituzionalità della legge, da parte del giudice costituzionale. Il bilanciamento dei diritti deve avvenire nel rispetto delle seguenti regole:
  1. deve riguardare conflitti tra diritti o valori aventi il medesimo rango costituzionale, vale a dire i beni tutelati devono possedere una rilevanza costituzionale;
  2. deve essere svolto in modo tale che il sacrificio subito da un diritto o da un valore sia ragionevole e proporzionato, ossia non eccessivo;
  3. deve essere tale da preservare comunque il contenuto essenziale del diritto sacrificato.

  1. I DOVERI COSTITUZIONALI
Nella Costituzione non vi sono solo diritti, vi sono anche doveri e obblighi, anche se questi occupano un posto sicuramente meno centrale. Ciò non deve stupire, in quanto il costituzionalismo moderno si affermò proprio in nome di un’inarrestabile esigenza di imporre limiti al potere assicurando prima di ogni cosa la garanzia dei diritti di colo che da sudditi si stavano per l’appunto trasformando in cittadini.
La battaglia per l’affermazione dei diritti non sia è mai fermata sia perché nel tempo e nello spazio i detentori del potere politico hanno invariabilmente mostrato una tendenza a trascurare la tutela dei diritti, sia perché lo sviluppo della società mai ha cessato e presumibilmente mai cesserà di tradurre le aspettative delle persone in presa di riconoscimento di nuovi diritti. Dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino fino alla Carta dei diritti fondamentale dell’Unione europea, passando per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e numerose altre, non potevano che porre l’enfasi sui diritti da affermare, difendere, tutelare, promuovere
La Costituzione italiana invece pone l’accento anche su i doveri. Questa impostazione fonda le sue radici nel pamphlet di Mazzini dal titolo I doveri dell’uomo: egli riteneva che l’insistenza sui diritti individuali avesse privato le persone della protezione che i vincoli sociali loro assicuravano. Il rischio allora era assicurare la fruizione dei diritti a una classe privilegiata di cittadini. Mazzini propugnava la necessità di un “principio educatore che guidasse l’uomo al meglio e li vincolasse con i suoi fratelli”. E questo principio è il dovere.
Le concezioni mazziniane, aggiornate, trovarono spazio in Costituzione. Per questo l’intera prima parte della Costituzione si intitola “diritti e doveri dei cittadini”. Nella nostra carta costituzionale si vuole dedicare spazio, pur in misura più ridotta rispetto ai diritto, ai doveri costituzionali di tutti colo che vivono e operano all’interno dell’ordinamento inteso come comunità. Inoltre, sebbene sia stretto il collegamento tra diritti e doveri, il nostro ordinamento non accetta né la primazia dei diritti sui doveri, né quella dei doveri sui diritti.

Dai principi fondamentali
  • Art. 2
Oltre a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, la Repubblica richiede l’adempimento ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Questo è il primo grande dovere costituzionale. È evidente che sta alla legge individuare le forme specifiche attraverso le quali ognuno, in questo caso sia cittadino che non cittadino, è chiamato ad adempiere questi doveri: si tratta di prestazioni delle quali tratta singole disposizione della Costituzione (artt. 52 e 53).
Anche nel caso dell’art. 2 ci si può chiedere se esso sia da considerare clausola riassuntiva con funzione introduttiva, oppure clausola aperta all’individuazione di nuovi doveri inderogabili. La conclusione prevalente è che a un ampliarsi dei diritti di libertà non possa non corrispondere a un ampliarsi dei doveri, i quali, però , allorché incidano su libertà coperte da riserve di legge, devono essere necessariamente previsti dalla legge.

  • Art. 4
Il primo comma dell’art. 4 Cost. parla di diritto al lavoro; il comma successivo definisce un dovere di ciascun cittadino di “svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, cioè molto semplicemente fare qualcosa di utile. La valenza esortativa della formula è evidente, e infatti si è discusso se si tratti di un dovere di natura meramente morale oppure di natura anche giuridica. È stato poi notato che, se letto con l’art. 23 Cost., il dovere ci cui parliamo rendere legittime le disposizione che impongono a tutti il servizio del lavoro in caso di emergenza.

Dal Titolo II
  • Art. 30.2
Altro dovere costituzionale consiste nel dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i propri figli (indipendentemente se siano nati all’interno o di fuori del matrimonio). Anche in questo caso l’endiadi è diritto-dovere, con la differenza che il costituente ha ritenuto di premettere il dovere al diritto. 

  • Art. 34.4
In relazione al precedente dovere, l’art. 34.4. Cost. prevede l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione. Si tratta di un’estrinsecazione del dovere e di una limitazione dei diritti dei genitori di educare i fili, diritto che essi non possono esercitare impedendo ai figli di frequentare la scuola.

Dal Titolo IV
  • Art. 52
Il primo dovere rientrante nel Titolo IV, è quello “sacrodi difesa della Patria; di tale solenne affermazione è corollario il dovere di prestare il servizio militare nei limiti e nei modi stabili dalla legge (comma 2). Secondo la Corte costituzionale, la difesa della Patria rappresenta un dovere collocato al di sopra di tutti gli altri ed è considerato inderogabile, nel senso che nessuna legge potrebbe farlo venire meno. Diversamente il servizio militare viene considerato solo un obbligo nella misura in cui cos’ preveda la legge. Sulla base di questa interpretazione è stato possibile sospendere la leva obbligatoria. 
Il dovere di difesa della Patria è un dovere rivolto a tutti i cittadini, da assolvere in forme diverse, non necessariamente in armi.

  • Art. 53
L’art. 53.1 Cost stabilisce il dovere di concorrere alle spese pubbliche; dovere incombente non solo ai cittadini ma a tutti e nella misura della capacità contributiva di ciascun soggetto. Il sistema tributario, ovvero il meccanismo attraverso il quale i soggetti di capacità economica sono chiamati a devolvere parte di questa a sostegno delle spese pubbliche, deve essere caratterizzato da progressività. Quel concorso, cioè, deve essere non proporzionale alla capacità economica, ma crescente, in percentuale, al crescere della capacità economica. Inoltre il dovere sancisce l’obbligo di commisurare il carico tributario in modo uniforme nei confronti dei vari soggetti a parità di situazione economia.

  • Art. 54
Rimane il richiamo al dovere di “essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” (comma 1 dell’art. 54 Cost.), obbligo primario specie il primo, per tutti cittadini. Il secondo comma, invece, è rivolto a coloro che esercitano funzioni pubbliche: da un lato richiama il dovere di adempirle con disciplina e onore, dall’altro prevede che legge possa imporre uno specifico giuramento. Sono tenuti al giuramento, qualora la legge lo preveda, organi a partire dal capo dello Stato, i membri del governo, i consiglieri delle regioni a statuto speciale, i giudici della Corte costituzionale, i magistrati, i sindaci.

  1. IL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA
29.1. Eguaglianza e libertà
La Costituzione, all’art. 3, stabilisce due principi fondamentali:
  1. al primo comma, il principio di eguaglianza formale
  2. al secondo comma, il principio di eguaglianza sostanziale
Queste due espressione sono figlie di una tradizione che unisce l’intera esperienza del costituzionalismo dallo stato liberale di diritto allo stato liberaldemocratico, in particolare nella sua dimensione sociale. L’eguaglianza formale, infatti, è propria della cultura liberal che riconosce la condizione di eguaglianza nei punti di partenza, ossia l’eguaglianza intesa come parti opportunità per tutti. L’eguaglianza sostanziale, invece, evoca la concezione socialista dell’eguaglianza nei risultati, che impone allo stato di intervenire nella struttura economica della società, al fine di rimuovere le situazioni di diseguaglianza esistenti di fatti. È un espressione che richiama comunque un’attività volta alla promozione di eguaglianza.
Il rapporto che corre tra eguaglianza e libertà è un rapporto antitetico, in quanto il massimo di libertà vuol dire anche il massimo di diversità, mentre la ricerca a tutti i costi dell’eguaglianza può portare alla limitazione delle libertà individuali. La libertà rimanda a una situazione relativa a un soggetto, l’eguaglianza a una relazione tra più soggetti. Nei moderni stati liberaldemocratici la carica antinomica dei due concetti è risolta conciliandoli dialetticamente, essendo entrambi indispensabili ai fini del pieno sviluppo della persona umana.
Nella Costituzione italiana la tensione tra i due principi di libertà e di eguaglianza è risolta negli artt. 2 e 3: da un lato, le libertà sono riconosciute come preesistenti rispetto all'organizzazione statale, per cui, in quanto diritti inviolabili dell’uomo, esse non costituiscono privilegio di pochi, ma devono essere riconosciute egualmente a tutti; dall’altro i diritti di libertà possono e devono essere disciplinati nel loro esercizio in nome dell’eguaglianza, ossia per realizzare situazioni di (più) eguale godimento dei diritti.

29.2. I significati di eguaglianza (art. 3.1)
Dall’art. 3.1 Cost. è possibile ricavare differenti significati del principio di eguaglianza:
1. eguaglianza davanti alla legge (riguarda l’efficacia della legge);
  1. eguaglianza come divieto di discriminazione (riguarda il contenuto della legge);
  2. eguaglianza come divieto di distinzioni o parificazioni irragionevoli (eguaglianza come doverosa ragionevolezza della legge).

1.
Eguaglianza davanti alla legge significa che la legge di applica a tutti. I soggetti di un’organizzazione politica non possono essere distinti in ragione dell’appartenenza a una casta, a un ceto, a un ordine, tanto meno possono essere trattati diversamente a seconda della loro dislocazione sul territorio. Il principio di eguaglianza, sotto questo profilo, costituisce l’atra faccia del principio di generalità della legge. In questa accezione il principio di eguaglianza riguarda l’efficacia della legge, ossia traduce il principio per cui la legge deve avere medesima forza nei confronti di tutti. Ciò implica, di conseguenza, che sono vietate, in linea di massima, le leggi ad personam e le leggi speciali o eccezionali ossia quelle che non dispongono nei confronti di tutti, ma che  provvedono con riferimento a determinati soggetti o situazioni.
Nella Costituzione italiana, corollari del principio di eguaglianza formale sono il principio di imparzialità della pubblica amministrazione e il principio di terzietà del giudice.
L’art. 3 riferisce il principio di eguaglianza a tutti cittadini. Tale limite, che escluderebbe gli stranieri, sembra confermato dall’art. 10.2 Cost. Tuttavia è ritenuta pacifico che il principio di eguaglianza riguardi tutti, cittadini e stranieri. Si ammette però che la condizione di straniero possa giustifica un trattamento distinto.
Inoltre si deve ritenere che il principio di eguaglianza formale valga nei confronti di tutti i soggetti dell'ordinamento giuridico, siano essi persone fisiche o persone giuridiche.

2.
L’art. 3.1. individua direttamente talune fattispecie tipiche che non possono essere assunte a motivo di differenziazione tra i soggetti dell’ordinamento: ciò vale non solo per coloro che sono chiamati ad applicare la legge, bensì anche e soprattutto al legislatore. Sotto questo profilo il principio di eguaglianza riguarda il contenuto della legge. Il divieto di discriminazione concernete:
  • il sesso: la legge non può distinguere le persone in ragione del sesso e degli orientamenti sessuali;
  • la razza: è vietato introdurre e praticare discriminazioni dirette e anche indirette sulla base della razza o dell’origine etnica (così afferma la l. 654/1975 di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1965);
  • la lingua: la legge non può fare distinzioni in base alla lingua conosciuta dai soggetti dell’orientamento (salvo deroghe previste dall’art. 6);
  • la religione: la legge non può fare distinzioni in base alla confessione religiosa seguita dal soggetto;
  • le opinioni politiche: questo divieto deve essere collocato in relazione alla libertà i manifestazione del pensiero, nonché alla libertà di associazione in partiti politici per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale;
  • le condizioni personali e sociali: con sociali si fa riferimento al contesto storico del principio di eguaglianza, con personali si fa riferimento al divieto di leggi ad personam, ma anche al divieto che le leggi assumano determinate caratteristiche della persona al fine di dettare una disciplina discriminatoria.
Con riferimento a tutte queste fattispecie, la Costituzione ha posto un presunzione di illegittimità costituzionale, accertabile della Corte costituzionale. Presunzione che non è mai assoluta, nel senso che devono essere fatte salve le deroghe espressamente poste dalla Costituzione e quelle derivanti l’applicazione del principio di ragionevolezza. Sono:
  • l’art. 6, il quale nel tutelare le minoranze linguistiche giustifica leggi che trattino in maniera differenziata rispetto alla generalità dei consociati gli appartenenti a comunità alloglotte;
  • gli artt. 7 e 8, che dettano i principi di regolazione dei rapporti tra Stato e confessioni religiose;
  • art. 37, che dispone le speciali tutele nei confronti delle madri lavoratrici;
  • art. 38,  che dispone le speciali tutele nei confronti degli inabili e dei minorati.

3. 
L’eguaglianza giuridica è un concetto di natura relazionale. Questo significa che, sotto l’aspetto strutturale, il giudizio di costituzionalità ha, a differenza della struttura binaria propria di tutti i giudizi di legittimità costituzionale, carattere triangolare, ossia poggia su tre elementi: 
  1. la norma impugnata per violazione del principio di eguaglianza (norma oggetto);
  2. la norma parametri (l’art. 3 Cost.);
  3. la norma che fa da termine di paragone (tertium comparationis).
Se la Corte costituzionale individua nell’ordinamento una ragione che giustifica il differente trattamento, la violazione del principio di eguaglianza è esclusa; se, invece, ritiene che nessuna ragione sussista per distinguere la posizione disciplinata nella norma oggetti di impugnazione, essa dichiara l'illegittimità della stessa.
Il principio di eguaglianza in senso formale non significa che tutti devono essere trattati allo stesso modo dalla legge, ma più propriamente che la legge deve trattare in modo eguale situazioni ragionevolmente eguali e in modo diverso situazioni ragionevolmente diverse. Il principio di eguaglianza, va quindi inteso come principio di eguaglianza ragionevole, in virtù del quale ogni parificazione o distinzione di trattamento deve essere razionalmente giustificata.
In definitiva, il principio di eguaglianza ragionevole vieta leggi ingiustificatamente discriminatorie e, per converso, leggi ingiustificatamente parificatorie.

29.3. La promozione dell’eguaglianza (art. 3.2)
Il fondamento del secondo comma dell’art. 3 sta nella consapevolezza che la sola eguaglianza formale non basta. Perciò la Costituzione richiede che siano poste in essere attività volte a promuovere l’eguaglianza. Essa individua:
  1. un compito, spettante alla Repubblica, che consiste nella rimozione degli ostacolai di ordine economico e sociale che di fatto limitano l’estensione delle libertà ed eguaglianza a tutti;
  2. un fine, che consiste nel “pieno sviluppo della persona umana” e nell’“effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica ed economica del paese”.
Il compito spetta alla Repubblica, e cioè non esclusivamente allo Stato apparato, ma a tutti i soggetti appartenenti allo Stato comunità. Quanto ai destinatari della disposizione, essi vanno individuati in tutti i soggetti che versano in condizione di deficit di libertà ed eguaglianza. L’intervento che si richiede non è soltanto diretto alla ridistribuzione delle risorse secondo i modelli di azione dello stato sociale, ma altresì a legittimare singoli interventi correttivi di diseguaglianza di fatto. Il compito di promuovere l’eguaglianza, in questo modo, si colloca in una posizione intermedia tra egualitarismo (a ciascuno secondo i suoi bisogni) ed eguaglianza delle opportunità (a ciascuno secondo i suoi meriti).
A ciò deve provvedere innanzi tutto il legislatore, mediante misure dirette al riequilibro delle posizioni, le azioni positive, tra le quali gli interventi diretti a realizzare parti opportunità tra i sessi. Furono così promosse con le modifiche del 2001 e del 2003 la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive e, conseguentemente, le pari opportunità.




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