CAP. 6 - LE FONTI DEL DIRITTO: LE SINGOLE FONTI
- LA COSTITUZIONE E LE FONTI COSTITUZIONALI
La Costituzione è l’atto supremo dell’ordinamento in quanto posta dal potere costituente: tutte le altre fonti sono subordinate ad essa in quanto prodotto da poteri costituiti, ossia previsti e disciplinati nella Costituzione stessa. Si parla oggi di “costituzioni lunghe”: le costituzioni liberaldemocratiche diventano sempre più lunghe in quanto sono maggiori gli aspetti da regolamentare in una società continuamente in evoluzione.
Sua caratteristica essenziale è la rigidità: essa può essere modificata solo mediante procedimento di revisione costituzionale.
L’art. 138 Cost. prevede tra le fonti del diritto di rango costituzionale le leggi di revisione costituzionale e le leggi costituzionali, prescrivendo per entrambe il medesimo procedimento di formazione. La differenza è contenutistica:
- le leggi di revisione costituzionale hanno come oggetto la modificazione mediante emendamento, aggiunta o soppressione, di parti del testo della Costituzione.
- le leggi costituzionali sono sia quelle espressamente richiamate da singole disposizione della Costituzione, per integrare la disciplina di determinate materie (casi di riserva di legge costituzionale artt. 71.1, 96, 116.1, 137.1), sia quelle che, tenuto conto l’importanza della materia, il Parlamento decide di deliberare nelle forme dell’art. 138.
Il procedimento di formazione delle leggi di rango costituzionale è diverso rispetto al procedimento di formazione di leggi ordinarie. Si parla di un procedimento aggravato in quanto più lungo e più complicato in cui si individuano principalmente tre i “profili di aggravamento” di cui due necessari e uno meramente eventuale.
- La legge di revisione prevede duplice lettura da parte di ciascuna camera: tra la prima lettura e la seconda lettura devono essere passati almeno tre mesi. Quindi ci saranno quattro approvazioni totali. L’utilità di questa intervallo di tempo di tre mesi è chiaramente volto al fine di una maggiore ponderazione da parte delle due camere dato bisogna arrivare ad una modifica della Costituzione.
- La maggioranza deve essere qualificata (il sistema ordinario per deliberare è la maggioranza semplice). Se il progetto viene approvato a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, non è consentito chiedere il referendum, e la legge di revisione costituzionale viene senz’altro promulgata e pubblicata.
Questi due punti rispecchiano i profili di aggravamento per approvare leggi di revisione costituzionali o leggi costituzionali. Il terzo profilo abbiamo detto essere eventuale.
Se il progetto è stato approvato a maggioranza assoluta (e non qualificata) dei componenti di ciascuna camera, esso viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Dal giorno della pubblicazione, infatti, decorrono tre mesi entro cui un quinto dei componenti di una camera o cinque consigli regionali o cinquecentomila elettori possono richiedere che la legge approvata sia sottoposta a referendum costituzionale (basta che solo uno di questi soggetti chieda il referendum, oppure possono chiederlo anche tutti insieme). Richiesto il referendum, la legge costituzionale è promulgata solo se, nella consultazione popolare, è stata approvata dalla maggioranza dei voti validi (manca quindi un quorum strutturale). Qualora il termine dei tre mesi passi senza che nessuna richiesta di referendum venga presentata, si procede alla promulgazione da parte del capo dello Stato ed entro quindici giorni entrerà in vigore
Naturalmente per la revisione costituzionale, che va a cambiare il testo della fonte suprema, la Costituzione, si fa ricorso alla tipologia di maggioranza che tenga conto del consenso del maggior numero di votanti possibile: la maggioranza qualificata di due terzi. Qualora si presentasse già questa maggioranza, si presume che non sia necessaria il referendum costituzionale in quanto nella decisione collettiva vengano comprese abbondantemente, non solo le forze al governo, ma anche quelle all’opposizione.
Ma se la maggioranza dei due terzi non si presentasse, allora il referendum costituzionale svolge una funzione di garanzia, essendo posto a tutela delle minoranze alle quali è consentita la possibilità, se non coinvolte nell’approvazione parlamentare, di chiedere al corpo elettorale intero di pronunciarsi sulla legge di revisione voluta dalla maggioranza.
Fino al 2001, sul piano politico, si era consolidata l’idea che per far approvare una legge di revisione costituzionale si dovesse per forza raggiungere i due terzi, anche se la legge non prevedeva questa limitazione. Nel 2001 è stato sfatato tabù del referendum per l’approvazione della riforma titolo quinto (rapporto Stato-Regioni). Venne chiesto il referendum e fu approvata la revisione. Nel 2005-2006 la proposta del centro destra di revisione costituzionale ha portato al referendum, che ha votato contro la revisione.
Esistono, tuttavia, limita alla revisione costituzionale, direttamente connessi con il concetto di rigidità che segnano il confine tra revisione della Costituzione (legittimo) e mutamento (illegittimo).
L’unico limite espresso è stabilito dall’art. 139 Cost.: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Il motivo per cui le viene dedicato un articolo è perché la forma di stato repubblicana è la più grande scelta democratica della storia del nostro Paese.
Inoltre esistono anche i limiti impliciti, ossia quelli non espressamente individuati, bensì dipendenti da scelte fondamentali della Costituzione repubblicana. Questi non sono altro che i principi supremi dell’ordinamento costituzionale che traggono da una lettura complessiva dell’intero testo costituzionale: il valore della dignità umana, i diritti inviolabili, il principio di sovranità popolare, il principio pluralista, il principio di laicità dello stato, il principio di uguaglianza formale e sostanziale, l’indifettibilità della tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali. Questi principi non si trovano in Costituzione, ma se si interpretasse la “Repubblica”, non in forma astratta, ma secondo la forma concreta e il contenuto dei nostri principi affermatisi con essa, allora possiamo ritrovare quegli altri limiti. Del resto il concetto di monarchia in Italia, negli ultimi anni, si è sempre legato a caratteri autoritari. Per questo, si può dire che il concetto di Repubblica delinea altri principi oltre a quello della forma di stato.
Limite logico alla revisione costituzionale è stato ritenuto lo stesso art. 138 Cost.: non si può eliminare questo articolo che è posto appunto a presidio della Costituzione delineando proprio il carattere di rigidità.
Sarebbe sbagliato dire che tutti questi principi sono intoccabili; dobbiamo capire in che verso si muove la revisione: se si potenzia in materia di libertà (nei limiti della Costituzione) quei principi immodificabili, allora può ritenersi legittimo.
Fra le leggi costituzionali vi sono disposizioni:
- Iperrigide, quando si deve attuare un procedimento legislativo più complesso rispetto all’art. 138 Cost. È il caso dell’art. 132 Cost, che riguarda la modificazione di regioni, province e comuni: secondo questo articolo è necessario che, prima delle disposizioni dell’art. 138 Cost, ci voglia una richiesta almeno di tanti consigli comunali quanti rappresentano un terzo delle popolazioni interessate e che la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni. Solo dopo si potrà procedere con le disposizioni dell’art. 138 Cost.
- Iporigide, quando non si deve attuare totalmente il procedimento legislativo previsto dall’art. 138 Cost. È il caso dell’art. 123, che riguarda la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento. L’elezione del Presidente della Giunta regionale è eletto dal popolo tramite referendum, ma la legge concede che lo statuto di una regione possa prevedere diversamente. Se una regione vuole modificare il suo statuto regionale in materia di elezione del Presidente della Giunta regionale, lo può fare senza ricorrere totalmente all’art. 138.
- FOCUS 1.1: Tipologia di maggioranza
- Un'opzione consegue la maggioranza semplice se ottiene un numero di voti superiore alla metà del numero totale di votanti. Detto in altri termini, la maggioranza semplice è conseguita dall'opzione che raggiunge un quorum funzionale fissato in più della metà dei votanti. Se le opzioni su cui si vota sono solo due, quella che ottiene più voti ne avrà senz'altro più della metà, sicché maggioranza semplice e relativa coincidono.
- Un'opzione consegue la maggioranza assoluta se ottiene un numero di voti superiore alla metà del numero totale degli aventi diritto al voto. Detto in altri termini, la maggioranza assoluta è conseguita dall'opzione che raggiunge un quorum funzionale fissato in più della metà degli aventi diritto al voto. Se tutti coloro che avevano diritto al voto lo hanno esercitato, maggioranza semplice e assoluta coincidono.
- Un'opzione consegue una maggioranza qualificata se ottiene un numero di voti non inferiore ad un quorum funzionale fissato in una frazione superiore alla metà del numero totale dei votanti o degli aventi diritto al voto. Le frazioni di solito utilizzate per fissare tale quorum sono 3/5, 2/3, 3/4 e 4/5.
- LE FONTI DELL’UNIONE EUROPEA
Il nostro ordinamento giuridico è aperto a fonti prodotte da altri ordinamenti: ordinamenti sovranazionali, internazionali e locali. In Costituzione si menziona il diritto internazionale negli art. 10 e 80 Cost. L’art. 10.1 Cost. afferma che “l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Dunque l’attuazione del diritto internazionale non prevede alcun intervento del Parlamento o di altri organi statali poiché la conformazione al diritto internazionale è automatica.
In una sentenza del 1979 la Corte costituzionale ha specificato che l’art. 10 Cost. nasce da una presunzione di compatibilità totale del costituente con il diritto internazionale, e viceversa. Tuttavia se si dovesse consolidare a livello di diritto internazionale un legge che è in contrasto con la costituzione, questa clausola inevitabilmente si chiuderebbe.
Oggi le autorità amministrative e giurisdizionali italiane applicano il diritto dell’Unione europea in parte direttamente (con i regolamenti), in parte previo adeguamento dell’ordinamento interno; e lo fanno, come vedremo, disapplicando il diritto italiano eventualmente incompatibile. Ciò in forza del primato del diritto dell’Unione.
Si tratta di stabilire, dunque, come le fonti dell’Unione europea incidono sul nostro ordinamento nazionale e di ricostruire le posizione a riguardo della Corte costituzionale.
Cosa succede se vi è un antinomia prodotta da due ordinamenti diversi, ad esempio, tra una norma interna e una norma comunitaria, nell’esempio più immediato del regolamento? Come vanno risolte queste antinomie? La Corte costituzionale è stata chiamata in causa per prendere decisione su questo argomento. Negli ultimi cinquant’anni la posizione della Corte è cambiate. Vediamo come.
1964 - Prima tappa
Nel 1962, con la sentenza 14/1964 (“sentenza Enel”), viene promulgata una legge che proclama la nazionalizzazione dell’ente Enel, per un più elevato sviluppo energetico del paese. Gli imprenditori impugnano la causa davanti la Corte costituzionale. Questo procedimento di nazionalizzazione di un ente privato e la formazione di un monopolio statale andava contro gli articoli della Comunità Economica Europea.
La Corte costituzionale viene messa, per la prima volta, davanti al problema della compatibilità tra diritto interno e diritto comunitario. La posizione con la quale esce da questa controversia afferma che i due ordinamenti devono rimanere tendenzialmente separati. L’antinomia non è tra una legge interna e una legge comunitaria ma è tra la legge nazionale del 1962 e la legge nazionale del 1957 che eseguiva il trattato della CEE in Italia (1957). Il conflitto tra le due, seconda la posizione della Corte, dovrà essere letto in chiave cronologica, sicché l’atto più recente in ordine di tempo avrebbe dovuto prevale su quello precedente.
1973/74 - Seconda tappa
Con la sentenza 183/1973 e 282/1974, la Corte costituzionale ritenne che il diritto e l’ordinamento comunitario non dovessero essere separati dal diritto e dall‘ordinamento nazionale, ma che dovessero essere con questi coordinati. La Comunità europea era una realtà che stava progressivamente crescendo e l’Italia doveva rispondere davanti un ordinamento comunitario sempre più importante. La regola, allora, stabilita dalla Corte fu quella della prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale (il fattore tempo diventa irrilevante).
La Corte trova un fondamento per questa sua posizione nell’art. 11 Cost che recita “L’Italia ... consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”. Se, quindi, si viene meno alla prevalenza del diritto comunitario, si va contro un articolo della Costituzione.
La Corte pone alla base il criterio gerarchico secondo il quale la norma internazionale “prevarrà” sulla norma nazionale, la cui fine sarà l'annullamento. Chiaramente l’eventualità di un antinomia tra diritto interno e sovranazionale si presenta soprattutto davanti alla fonte comunitaria del regolamento, in quanto non c’è tempo per la Corte di cambiare il diritto interno in linea con il regolamento comunitario.
In ultima analisi, i giudici della Corte costituzionale si chiedono entro che limiti possa valere il criterio gerarchico. Se, ad esempio, venisse approvato un regolamento che mette in discussione uno dei principi supremi della Costituzione, esso può prevalere sul diritto interno? La “dottrina dei controlimiti” propone che se si presentasse una situazione del genere, il diritto interno potrebbe solo “aggredire” la legge di approvazione dei trattati internazionali: la Corte dichiarerebbe incostituzionale la legge di approvazione dei trattati nell'ambito in cui un regolamento lede i principi costituzionali. Di fatto però in questo modo, l’Italia uscirebbe dalla Comunità europea.
Con la sentenza Simmenthal la Corte ha ribadito la superiorità del diritto comunitario sul diritto nazionale. Tuttavia riconosce che prima che esso entri in vigore bisogna aspettare che la Corte costituzionale dichiari invalida una legge interna su una legge comunitaria, la annulli, attraverso un processo di annullamento molto lungo che avrebbe ostacolato l'efficacia diretta del regolamento.
1984 - Terza tappa
L’ultima tappa decisionale della Corte costituzionale viene sancita con la sentenza 170. Viene affrontato espressamente il rapporto tra diritto nazionale e diritto comunitario direttamente applicabile (quindi non concernente le direttive, a meno che non siano autoapplicative o dettagliate). Bisognava che qualsiasi giudice potesse applicare un regolamento comunitario senza aspettare la pronuncia della Corte costituzionale. Il singolo giudice dà, così, prevalenza al diritto comunitario direttamente applicabile rispetto al diritto interno in contrasto. Ma potrà il giudice abrogare la legge in virtù del regolamento? No. Potrà annullarla? No. Nella controversia che regola la giudice disapplicherà la legge interna per applicare la legge comunitaria.
Le norme nazionali si restringono e subiscono un limite nella loro operatività (sospesa nella sua efficacia, né annullata, né abrogata); se, poi, quel regolamento comunitario venisse meno, allora esse si riespanderebbero nella loro operatività.
Tutto ciò vale per i regolamenti. Per le direttive (ovvero in materia di diritto comunitario non direttamente applicate, esclusi le eccezioni che abbiamo visto), invece, occorre precisare che, dovendo essere recepite con atto normativo interno, esse avranno nel sistema dell fonti la collocazione che è propria dell’atto di recepimento.
La costituzione riconosce alle regioni il potere di attuare immediatamente le direttive. Poiché il mancato recepimento delle direttive espone lo Stato responsabilità nei confronti dell’Unione, l’art. 117. Cost. prevede un potere sostitutivo statale in caso di inadempienza da parte delle regioni. Nella sent. 28/2010 la Corte ha per la prima volta accolto una questione di legittimità costituzionale sollevata in via incidentale per contrasto con una direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta. Il giudizio di costituzionalità su norme interne contrastanti con norme dell’Unione queste svolte nell’ambito dei corsi in via d’azione sollevata dallo Stato dalle regioni. Nei giudizi in via d’azione la Corte costituzionale può anche sollevare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea.
- LA LEGGE ORDINARIA DELLO STATO
La legge dello Stato è fonte a competenza generale, sia pure nei limiti stabili dalla Costituzione: può disciplinare qualsiasi oggetto fatto salvo quanto è disciplinato direttamente dalla Costituzione stessa o da questa riservato a fonti diverse dalla legge.
Le materia di competenza riservate alla legge ordinaria dello Stato sono quelle che riguardano gli interesse e i valori generali, riferiti al popolo italiano nella sua totalità, che si estendono su tutto il territorio nazionale.
- “Legge”: l’atto fonte abilitato a produrre norme primarie e dotato di forza di legge.
Alla legge la Costituzione affida importanti materie mediante le riserve di legge.
- “Riserva di legge”: istituto che designa i casi in cui disposizioni costituzionali attribuiscono la disciplina di una determinata materia alla sola legge, sottraendola così alla disponibilità di atti fonte a essa subordinati, tra cui soprattutto i regolamenti dell’esecutivo.
La riserva di legge è contraddistinta da due aspetti:
- aspetto negativo: il divieto di interventi da parte di atti diversi dalla legge;
- aspetto positivo: l'obbligo per la legger di intervenire nella materia riservata.
Le riserve di legge sono stabilite allo scopo di garantire il principio democratico (la legge è espressione della sovranità del popolo e si forma attraverso un procedimento in cui è assicurato il pubblico dibattito) e, in generale, di tutelare i diritti fondamentali e il principio di eguaglianza (infatti la legge è atto che dovrebbe essere generale e astratto).
Si distingue vari tipi di riserva di legge:
- riserve assolute, quando l’intera disciplina della materia è riservata alla legge (es: artt. 13 e 25 Cost.);
- riserve relative, quando la legge regola la disciplina essenziale o di principio della materia in modo da circoscrivere adeguatamente la discrezionalità dell’esecutivo nel dettare la disciplina ulteriore di dettaglio (es. artt. 23, 41 e 97 Cost.);
- riserve rinforzate, quando la Costituzione stabilisce che l’intervento legislativo debba avvenire secondo erte procedure (es. artt. 7 e 8 Cost.) oppure debba avere certi contenuti costituzionalmente prestabiliti (es. art. 16.1 Cost.).
Le leggi hanno come contenuto norme generali e astratte. Tuttavia, vi sono dei casi in cui si verifica una dissociazione fra la forma (la legge) e i suoi contenuti. Questo è il caso delle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, delle leggi di bilancio. Per questo genere di leggi si parla di leggi in senso (solo) formale.
Frequente, inoltre, è il caso di atti la cui forma è la legge ma per il contenuto sono veri e propri atti amministrativi, cioè non prevedono comportamenti da permettere o vietare, ma provvedono immediatamente alla cura di un determinato interesse. In questo caso si parla di leggi-provvedimento.
- “Legge-provvedimento”: atto formalmente legislativo ma dal contenuto provvedimentale.
Esse pongono problemi: in relazione al principio della generalità della legge, alla separazione della funzione legislativa e della funzione esecutiva-amministrativa, al diritto alla tutela giurisdizionale contro provvedimenti che non possono essere impugnati direttamente dal cittadino. Ciò nonostante, l’ammissibilità delle leggi-provvedimento è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale sulla base del presupposto che non esiste nel nostro ordinamento una riserva di amministrazione a favore del governo, ma di queste deve essere comunque valutata la legittimità costituzionale relativamente al loro specifico contenuto. Il costituente vuole tutelare a favore del legislatore e non a favore dell’amministrazione. La legge può dunque adottare contenuti di tipo amministrativo, ma il provvedimento non potrà mai adottare contenuti di tipo legislativo.
Davanti ad una legge-provvedimento, come si deve comportare il cittadino che vuole impugnare una causa in tribunale? Deve recarsi al Tribuna Amministrativo Regionale o deve fare ricorso alla Corte costituzionale? Non potrà fare né l’uno né l’altro. Allora sembra sollevarsi un problema di incostituzionalità in quando non viene rispettato l’art. 24 della Costituzione che sancisce che chiunque possa agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
Su questo problema si è pronunciata la Corte costituzionale che ha stabilito che:
- le leggi-provvedimento come categoria generale non contrastano col nostro ordinamento;
- ogni singola legge-provvedimento dovrà essere posto ad uno suo scrutinio per stabilire la sua legittimità o illegittimità.
La Corte costituzionale richiamandosi alle leggi in senso formale dimostra che esistono casi di leggi in cui non si ha contenuto generale astratto. Quindi non è escluso dalla Costituzione che la legge possa assumere un contenuto diverso da quello generale astratto. Il Parlamento può dare ad una legge, quindi, un contenuto diverso dal generale astratto e può approvare una legge-provvedimento che hanno un contenuto provvedimentale-concreto.
Leggi-provvedimento devono ritenersi escluse in tutti i casi in cui la Costituzione richiede specificamente leggi generali (artt. 16, 21, 33 Cost.).
- FOCUS 6.1 - Principio di legalità, riserva di legge, preferenza di legge
In base al principio di legalità, è nella legge che devono trovare fondamento tutti i diversi atti dei pubblici poteri, siano essi atti normativi secondai, provvedimenti amministrativi giurisdizionali. Principio fondamentale dello stato di diritto, non trovato espressamente in Costituzione, può essere comunque desunto dalle norme costituzionali che subordinato l’attività amministrativa (art. 97 Cost.) e giurisdizionale (art. 102 Cost.) al dettato della legge. Il principio di legalità trova la sua ragion d’essere nella necessità di sottoporre a regole generali e astratte attività potenzialmente invasive della libertà del cittadino.
Esso riguarda altresì la posizione del cittadino rispetto al potere pubblico: principio di legalità vuol dire che è consentito are tutto ciò che la legge non vieti espressamente.
Oggetto di discussione è il quantum di disciplina legislativa necessario per soddisfare il principio di legalità. Secondo alcuni sarebbe sufficiente una semplice autorizzazione legislativa, con contestuale rinvio al potere subordinato (legalità in senso formale); a parere di altri, invece, la legge dovrebbe sempre offrire una minima disciplina (legalità in senso sostanziale). La Corte costituzionale ha richiamato spesso l’interprete al rispetto della principio di legalità in senso sostanziale.
La riserva di legge (assoluta o relativa, rinforzata o meno) è un istituto previsto in molti articoli della Costituzione e concerne la distribuzione del potere normativo fra i vari organi, riservando alla legge (o agli atti aventi forza di legge) l'intervento su determinate materie.
La preferenza di legge è un istituto che tra origine da una delle leggi con cui si procedette all0unificazione del Regno d’Italia che obbligava il giudice ordinario a disapplicare il regolamento se contrastasse con una norma di legge. Dal fondamento costituzionale del principio discendono due corollari che delineano il sistema delle fonti primarie quale sistema chiuso: la legge e gli atti a essa equiparati non possono né creare fonti primarie a sé concorrenti, né elevare fonti secondarie a un livello superiore, cioè a livello legislativo.
- ATTI NORMATIVI DEL GOVERNO EQUIPARATI ALLA LEGGE: I DECRETI LEGISLATIVI
La Costituzione attribuisce poteri normativi di rango primario al governo che può adottare decreti legislativi e decreti legge. Tali atti normativi hanno la medesimo forza della legge ordinaria.
La potestà primaria del governo non è però autonoma né ordinaria, in quanto la costituzione richiede sempre l’intervento del Parlamento in funzione di garanzia del legittimo esercizio del potere governativo. Il governo, infatti, non può adottare decreti legislativi senza una previa legge di delegazione, mentre i decreti legge, adottati in casi straordinari di necessità e urgenza, hanno efficacia provvisoria e devono essere convertiti in legge dalle Camere.
Il decreto legislativo è definito nell’art. 76 Cost. Il procedimento di delegazione legislativa, invece, è espresso dettagliatamente nell’art. 14 l. 400/1988.
Il procedimento di delegazione legislativa è un procedimento duale o bifasico:
- fase parlamentare, in cui il Parlamento approva mediante legge la delega;
- fase governativa, in cui il governo esegue sulla base di quella legge il decreto legislativo delegato.
Il Parlamento approva una legge di delegazione e riconosce al governo di adottare decreti legislativi, soprattutto, quando si tratta di affrontare riforme organiche di un intero settore legislativo che risultano particolarmente complesse, anche dal punto di visto tecnico. Ad esempio l’attuale codice di procedura penale è un decreto legislativo. La produzione normativa del governo aumenta soprattutto nei periodi di crisi.
La fase parlamentare
La fase parlamentare prevede l’ approvazione di una legge ordinaria (la legge di delegazione), in sola sede referente, quindi con un processo normale (art. 72.4 Cost.).
La legge di delegazione ha la funzione di conferire al (solo) governo il potere di adottare atti aventi forza di legge, i decreti legislativi. In base all’art. 76 Cost., essa deve:
- indicare il termine entro il quale la delega può (non deve) essere esercitata (l’art. 14 della legge 400/1988 chiarisce che è l’emanazione del Capo dello Stato la data di riferimento per il termine di scadenza.
- contenere l’individuazione dell’oggetto (o degli oggetti, purché distinti) della delega chiaramente definito (deve trattare specifici oggetti);
- stabilire i principi (ossia le norme generali o di principio di carattere sostanziale) e i criteri direttivi (le regole procedurali di carattere strumentale).
Questo tre punti servono chiaramente per delimitare la discrezionalità del governo. Se una legge di delegazione non contiene uno di questi elementi essa non è valida secondo la Costituzione.
Si distingue dal contenuto necessario (termine, oggetti, principi e concetti) da un contenuto eventuale. Quando si parla di contenuto eventuale ci si riferisce ad una prassi che negli ultimi anni si è rafforzata: spesso le leggi delega oggi prevedono, oltre al limiti, principi e oggetti, che prima dell’adozione definitiva dei decreti il governo si impegni a fare esaminare alle commissione parlamentari per materia i relativi schemi (le bozze). Quindi si prevede che il parlamento torni ad esaminare, anche dopo l’approvazione della legge di delegazione, il decreto legislativo.
Esistono limiti impliciti alle materie che il Parlamento può delegare al governo: in particolare, i principi che presuppongono l’alterità politica ossia la necessaria distinzione tra Parlamento e governo (cioè ricorre nella maggior parte dei casi dell’art. 72.4).
La fase governativa
Nella fase governativa il Governo esercita la delega.
- “Decreto legislativo”: l’atto che il governo adotta in attuazione della legge di delegazione, viene deliberato dal Consiglio dei Ministri ed emanato dal presidente della Repubblica.
A livello giuridico, il governo non è obbligato ad esercitare la delega (a livello politico suonerebbe strano): ad esempio, se cadesse il governo e il termine della delega non fosse ancora scaduto, il nuovo governo non sarebbe obbligato ad esercitare quella delega.
La delibera del decreto legislativo è effettuata dal Consiglio dei ministri. Dopo la delibera dei Ministri, è il presidente della Repubblica che deve emanarlo ufficialmente. Infine, sarà reso pubblico sulla Gazzetta ufficiale.
Nel momento in cui è stato approvato il decreto, la podestà legislativa del governo non è ancora finita. Il governo può decidere di frazionare il decreto legislativo in più parti ed esercitarlo a distanza di tempo (art. 14.3 l. 400/1988). Il frazionamento (chiaramente entro il termine di scadenza) è permesso solo in relazione ad oggetti presenti nella legge di delegazioni che siano scindibili tra loro.
Altra cosa è la prassi relativa all’adozione di decreti legislativi integrativi o correttivi: questi intervengono a correggere o ad integrare parti che sono state malconcepite o problemi che si sono manifestati successivamente. I decreti integrativi o correttivi prevedono un altro termine di scadenza successivo al primo. I decreti legislativi integrativi e correttivi pongono problemi di coerenza con i principi e i criteri posti precedentemente, perché spesso il governo tende a ridisciplinare il decreto, e quindi far sfumare il termine dell’esercizio della prima delega.
Un particolare tipo di fonte sono i decreti del governo in caso di guerra (art. 78 Cost.): essi possono essere adottati dal governo previa deliberazione da parte delle Camere dello stato di guerra e sulla scorta di un conseguente conferimento di “poteri necessari”. L’atto attribuisce al governo il potere di adottare atti con forze di legge la cui delega, a differenza di quella legislativa normale, non deve per forza predeterminare i criteri, i principi e il termine.
- ATTI NORMATIVI DEL GOVERNO EQUIPARATI ALLA LEGGE: I DECRETI LEGGE
Il governo, quando ricorrano determinati presupposti, può adottare decreti legge. Essi sono provvedimenti provvisori con forza equiparata alla legge ordinaria, deliberati dal Consiglio dei ministri ed emanati dal presidente della Repubblica. Il decreto legge è quindi un autoassunzione del governo del potere legislativo in casi di urgenza.
La decretazione d’urgenza è però circondata da una serie die condizioni e limiti quanto al procedimento e all’efficacia dell’atto.
In base all’art. 77 Cost., il decreto:
- può essere adottato solo in “casi straordinari di necessità e urgenza”;
- deve essere presentato alle Camere per la conversione lo stesso giorno in cui è adottato e le Camere, anche se sciolte, si riuniscono entro i successivi 5 giorni;
- dura solo 60 giorni e ha dunque efficacia provvisoria: se non è convertito in legge dal Parlamento la perde sin dall’inizio (ex tunc).
Integrano la disciplina dell’art. 77 le prescrizioni dell’art. 15 della l. 400/1988 in base alle quali i decreti legge:
- non possono conferire deleghe legislativa ex art. 76 Cost.;
- non possono provvedere nelle materie che l’art. 72.4 Cost. riserva all’approvazione dell’assemblea;
- non possono riprodurre le disposizioni di decreti legge dei quali sia stata negata la conversione in legge con il voto di una delle due Camere;
- non possono regolare rapporti giuridici sorti sulla base di decreti legge non convertiti;
- non possono ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per vizi non attinenti al procedimento.
Appena adottato dal governo, il decreto diventa oggetto di un apposito disegno di legge di conversione. Il governo presenta un disegno legge alle Camere composto da un solo articolo che recita: “il decreto legislativo n°..., approvato il... [data] è convertito in legge” e con la legge di conversione viene approvato dal Parlamento. La legge di conversione è l’atto mediante il quale il Parlamento si riappropria della funzione legislativa eccezionalmente esercitata dal governo. Si parla di conversione perché questo è il nome che si dà al procedimento attraverso il quale il titolare di un potere sostituisce l’atto fonte adottato da una altro potere: ciò si fa con una legge ordinaria, dando luogo a novazione della fonte. Così come i decreti legislativi sono diversi dalla legge delega, i decreti legge sono formalmente diversi dalla legge di conversione.
Può il disegno di conversione di legge del Parlamento modificare il decreto legislativo? Ci sono due posizioni rilevanti.
- Se si crede di far prevalere la potestà legislativa del governo il cui atto ha forza di legge (secondo la dottrina), il Parlamento dovrà approvare il disegno di legge di conversione in tutti i suoi aspetti, oppure non approvarlo.
- Se invece si ritiene che il Parlamento possa incidere sul testo del decreto legge in quanto titolare supremo della podestà legislativa, questa premessa apre le porte alla possibilità delle Camere di modificare ed integrare il decreto legge.
Secondo la prassi, l’art. 15 della legge 400/1988 della Corte costituzionale, in sede di conversione il Parlamento è libere di apportare modifiche al testo del decreto legge. Gli emendamenti approvati dalle Camere, però, hanno efficacia solo pro futuro, ossia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che questa non disponga diversamente. Spesso i decreti di legge vengono formulati con pochi articoli ed escono con molti più articoli. Questa posizione rigida che permette al titolare costituzionale del potere legislativo di poter apportare modifiche al testo del decreto, viene ribadita da quella parte della dottrina che crede (addirittura) che il decreto legge in quanto tale nasca già invalido, perché è il governo che assume l'esercizio della podestà legislativa. Quindi l’unico aspetto per sanare questa illegittimità sarebbe il vaglio e la possibilità di modifica da parte del Parlamento, riaffermando, in qualche modo, la separazione dei poteri. Tuttavia, bisogna anche dire che, il decreto legge non può essere considerato illegittimo perché è presente in Costituzione: se è essa a stabilire che il decreto legge è fonte del diritto, non si può affermare che esso è illegittimo. Viene, allora, posto un’efficacia molto breve attraverso una limitazione molto restrittiva: la scadenza dei 60 giorni.
Il procedimento legislativo che prevede il procedimento per la conversione in legge del decreto sia più veloce rispetto al procedimento legislativo ordinario. Per evitare di far decadere i decreti, il Parlamento immette il disegno di legge conversione su una “corsia preferenziale” dando ad esso la precedenza nella programmazione. Ma, di norma, se il Parlamento vuole bocciare il decreto legge, lascia scadere i 60 giorni.
L’abuso degli emendamenti
Proprio per la precedenza riservata al decreto legge, un parlamentare potrebbe avere la tentazione di aggiungere un emendamento legato a personali interessi politici al disegno di conversione. Di fatto questo succede: solitamente il numero di emendamenti presentati ad un disegno di legge di conversione è altissimo (episodio di proposta di emendamento in materia di sostanze psicotrope, nell’ambito delle Olimpiadi invernali di Torino del 2006). Sotto questo profilo la Corte costituzionale si è pronunciata con la sent. 22/2012 censurando “l’uso improprio” del potere di conversione attribuito al Parlamento. Secondo la Corte, nell’apportare modifiche a un decreto legge le Camere non possono alterare “l’omogeneità di fondo della normativa urgente”, introducendo emendamenti “del tutto estranei all’oggetto e alle finalità dell’originario”. Dunque, il giudice ultimo della legittimità degli emendamenti è la Corte costituzionale.
Se il Parlamento rifiuta la conversione in legge del decreto, ha la facoltà di regolare i rapporti giuridici che erano sorti sulla base del decreto attraverso l'esercizio dell’attività legislativa ordinaria con una legge regolatrice (o legge di sanatoria). Essa, allora, non sarà una legge con validità pro futuro, ma medio tempore (il lasso di tempo dei 60 giorni).
La reiterazione del decreto legge
Negli ultimi decenni (soprattutto negli anni Settanta) per il governo c’è stata la tendenza di far prevalere proprie esigenze (anche non necessariamente di carattere oggettivo) attraverso decreti legge: erano così tanti i decreti legge che al Parlamento mancava il tempo materiale per prenderli tutti in esame. Allora questo ha spinto il governo ad adottare un escamotage: la reiterazione del decreto legge.
La reiterazione del decreto legge si presenta quando il governo adotta una decreto legge di identico contenuto a quello precedente ma in assenza di nuovi presupposti di necessità e urgenza. Il governo, in prossimità della scadenza dei 60 giorni, deliberava un decreto legge identico a quello precedente, per evitare che quest’ultimo decadesse (in effetti il massimo di reiterazioni è stato 23, quindi due anni di vigenza di una normativa in cui il Parlamento non si è espresso).
L’esercizio della reiterazione, però, non è coerente con il disegno costituente e per questo la Corte, con la sent. 360/1996, si pronuncia decretando illegittima secondo due aspetti:
- La divisione tra potere esecutivo e potere legislativo è un principio cardine del nostro ordinamento. Il titolare del potere legislativo è il Parlamento. Il costituente ha previsto che il Parlamento potesse aprire le porte del potere legislativo al governo ma una scadenza ben precisa. Allora, la reiterazione incide sulla separazione dei poteri e contrasta con l’art. 77 Cost.
- La reiterazione non incide solo sui rapporti Parlamento-governo, ma mette in discussione i presupposti stessi dell’adozione del decreto di legge. I presupposti sono “i casi straordinari di necessità e urgenza”; ma se un decreto viene reiterato per enne volte, questo allora perderà la sua credibilità in quanto a “necessità straordinaria”. L’unica “urgenza” è quella di evitare che non decadano tutti i precedenti decreti, ma è chiaramente una necessità soggettiva del governo. Anche secondo questo profilo si è contro ciò che sancisce l’art. 77 Cost.
La reiterazione è illegittima. Ma se ad un certo punto della catena di reiterazione, il Parlamento converte il decreto in legge? Allora, si dice che, l’intervento del Parlamento “sana la reiterazione”. Come autorità della podestà legislativa, il Parlamento può, solo dopo la conversione in legge, aver tollerato l’abuso della reiterazione.
La mancanza di casi necessari
Un’altro vizio del decreto legge che da sempre si è presentato consiste nella mancanza di presupposto di straordinaria necessità e urgenza. Riguardo chi possa essere il giudice ultimo della presenza o meno di un urgenza, esistono diverse letture:
- Chi valorizza il concetto di decreto legge come decisione politica, stabilisce che è il governo a prendersi la responsabilità di decidere autonomamente, e poi sarà il Parlamento a discutere sui presupposti di necessità e urgenza.
- Chi valorizza il testo costituzionale e l’autorità della Corte costituzionale, stabilisce che, se non ci sono presupposti di necessità e urgenza, l’atto del governo risulta incostituzionale. Allora spetterà alla Corte pronunciarsi sulla presenza o meno di questi casi di urgenza.
Dopo essersi astenuta dal controllo per molti anni, con la sent. 29/1995, la Corte costituzionale pone il problema dell’assenza di casi di urgenza. Solo con la sentenza 29/2007 (sentenza sul sindaco di Messina accusato di peculato), la Corte sancisce che se un decreto viene adottato senza casi di straordinaria necessità e urgenza è viziato e questo vizio si trasferisce anche alla legge di conversione. La legge del Parlamento non sana questo vizio, a differenza della reiterazione. Riguardo il cambio di rotta della giurisprudenza della Corte, molti hanno sottolineato un forte contrasto: nella sent. 360/1996 è stata più attenta all’autonomia del Parlamento, nella sent. 29/2007 è stata molto più penetrante.
Se volessimo cercare di trarre una lettura omogenea di queste due tendenze, potremmo dire che la reiterazione, a differenza della mancanza di presupposti, non concerne il primissimo decreto. È quindi più grave il secondo vizio, rispetto alla reiterazione, prassi che riguarda semplicemente un mal uso di uno strumento legislativo.
- IL REFERENDUM ABROGATIVO (RINVIO)
L’art. 75 Cost. disciplina il referendum popolare per l’abrogazione, totale o parziale, di leggi ed atti aventi forza di legge. La dottrina prevalente include l’atto abrogativo referendario tra le fonti del diritto in quanto l'abrogare puramente e semplicemente non è mai un “non disporre”, ma più precisamente un “disporre diversamente”. Vedi referendum abrogativo al capitolo 10.
- LE FONTI LEGISLATIVE “SPECIALIZZATE”
Le fonti legislative specializzate non costituiscono una categoria scientifica autonoma: sono fonti tra loro diverse che nulla hanno in comune se non l’atipicità rispetto alle altre fonti primarie. Sono specializzate quelle fonti che:
- hanno procedimenti di formazione particolari;
- subiscono una dissociazione tra forma e forza dell’atto, nel senso che, pur appartenendo a un determinato tipo di fonte del diritto, hanno una forza arriva o passiva rinforzata;
- disciplinano determinate materie.
Tra queste rientrano i seguenti atti legislativi:
- leggi di esecuzione dei Patti Lateranensi: cui spetta disciplinare i rapporti fra Stato e Chiesa cattolica. La loro modificazione, se non accettate da entrambe le parti, deve essere effettuata con procedimento di revisione costituzionale (art. 7 Cost.)
- leggi che disciplinano i rapporti fra lo Stato e le altre confessioni religiose, approvate sulla base di intese stipulate tra governo e le rappresentanze di ciascuna confessione (art. 8 Cost.)
- leggi che staccano una provincia o un comune da una regione per aggregarli ad un’altra, approvato sulla base di una referendum (art. 132.2. Cost.)
- leggi di amnistia (che estingue il reato) e indulto (che condona la pena o parte di essa), deliberate a maggioranza di due terzi nelle due Camere (art. 79 Cost.)
- leggi statali che stabiliscono “forme e condizione particolari di autonomia” alle regioni ordinarie: possono riguardare tutte le materie di competenza concorrente, nonché alcune materie di competenza esclusiva dello Stato. L’iniziativa spetta alla regione interessata; la legge è quindi approvata dalle Camere a maggioranza assoluta, sulla base di un’intesa fra Stato e regione (art. 116.3 Cost.)
- decreti legislativi di attuazioni degli statuti delle regioni speciali, adottati sulla base di disposizioni contenute negli statuti stessi, deliberati dal Consiglio dei ministri, previo parere di una commissione paritetica formata da tre esperi designati dal governo e tre dalla regione interessata. Essi non presuppongono una legge di delegazione, ma costituiscono espressione di un potere normativo proprio del governo di carattere permanente.
- la legge prevista dall’art. 81.6 Cost. il quale demanda ad una legge approvata a maggioranza assoluta da ciascuna camere di dare attuazione alle disposizioni costituzionali a tutela dell’equilibrio di bilancio e delle pubbliche amministrazioni.
- LE FONTI ESPRESSIONE DI AUTONOMIA DEGLI ORGANI COSTITUZIONALI
8.1. Regolamenti parlamentari
L’art. 64 Cost. stabilisce che “ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti”. I regolamenti parlamentari sono atti fonte di rango primario a competenza materiale riservata (riserva di regolamento parlamentare), in quanto attuano direttamente la Costituzione, ma sono anche atti fonte perché regolano i rapporti delle Camere con altri organi e contengono previsioni che incidono su altri soggetti. Ad esempio il procedimento legislativo è menzionato e delineato nella sua essenzialità in Costituzione; ma è rimandato in tutti i suoi dettagli ai regolamenti delle Camere.
L’art. 64 Cost. ci dice già qualcosa sul regolamento delle Camere: le sedute sono pubbliche, le deliberazioni non sono valide se non c’è la maggioranza dei componenti e se non sono adottate a maggioranza dei presenti (maggioranza che solitamente è di tipo semplice). I membri del governo possono assistere alle sedute anche se non facenti parte del Parlamento.
I regolamenti parlamentari delle due Camere prevedono a loro volta l’adozione di regolamenti speciali che disciplinano l’organizzazione e il funzionamento di particolari organi delle Camere (commissioni, gruppi parlamentari, giunte, presidenza ecc.). Distinti da questi sono i regolamenti di organizzazione che disciplinano la gestione amministrativa degli apparati de due rami del Parlamento (ad es. biblioteche, contabilità interna, la gestione del personale; ma non sono fonti del diritto). Entrambi i due tipi di regolamenti sono gerarchicamente subordinati al regolamento generale dell’assemblea.
Il regolamento parlamentare è un fonte primaria a competenza riservata approvato a maggioranza assoluta dei componenti. Si evince che si voleva garantire l’approvazione maggiore comprendente anche le opposizioni.
Nonostante siano atti di rango primario, la Corte costituzionale ha escluso che i regolamenti parlamentari possano essere oggetto del sindacato di costituzionalità.
Nel 1985 la Corte di cassazione sollevò il problema di autodichia del Parlamento, espressa nell’art. 12 dei rispettivi regolamenti di Camera e Senato. Con la sent. 154/1985 la Corte costituzionale analizza la richiesta della Corte di cassazione. Prima di tutto indaga in via pregiudiziale sull’ammissibilità della richiesta: secondo la Corte la richiesta della Corte di cassazione non è ammissibile in quanto i regolamenti parlamentari non hanno forza di legge e non sono espressione della comunità.
Con la sent. 379/1996, riguardo il comportamento di alcuni parlamentari di votare per non presenti, la Corte invece stabilisce che è compito delle singole Camere reagire a comportamenti deviati dei suoi dipendenti; tuttavia non la Corte che, invece, lederebbe l’autonomia parlamentare.
8.2. Regolamenti degli altri organi costituzionali
In Costituzione non esiste alcuna disposizione che riconosce ad altri organi costituzionali, oltre al già visto Parlamento, la possibilità di adottare norme regolamentari interne.
Tuttavia gli organi costituzionali, in particolare Corte costituzionale e Presidenza della Repubblica, hanno dei veri e propri regolamenti interni. Questa possibilità non è riconosciuta da una norma costituzionale, ma da leggi ordinarie. Allora, se previsti da legge ordinaria, i regolamenti di Corte costituzionale e di Presidenza non sono fonti primarie.
Su questo c’è un dibattito e una posizione altalenante della Cassazione e del Consiglio di Stato: se affermiamo che i regolamenti interni di Corte e Presidenza sono fonti primarie, e non fonti secondarie, ammettiamo che esiste un fondamento costituzionale e quindi le leggi ordinarie che li hanno adottati hanno solo palesato un principio che era già presente in Costituzione. Quindi possiamo dire che Corte costituzionale e Presidenza della Repubblica sono organi costituzionali di pari livello del Parlamento e sono tra loro in posizione di parità e indipendenza. Se questa parità deve essere garantita allora gli organi devono essere tutelati in egual maniera: tutti allora devono avere una autonomia regolamentare.
Ancora diverso è il caso dei regolamenti interni all’istituzione governo. I regolamento organizzativi hanno natura secondaria: questo in relazione anche all’esplicita riserva di legge in materia di organizzazione e funzionamento del governo. Per quanto riguarda la presidenza del Consiglio, il d. lgs 202/1999, prevede una generale autonomia organizzativa, contabile e di bilancio, che sembra richiamare l’autonomia riconosciuta a Camere e Corte costituzionale.
9. LE FONTI REGOLAMENTARI
I regolamenti sono fonti secondarie del diritto, ossia subordinate a quelle primarie. La denominazione include una categoria eterogenea diatti normativi di competenza del governo, degli organi centrali e periferici della pubblica amministrazione, nonché delle regioni e degli enti locali. Questi regolamenti non vanno confusi con i regolamenti dell’Unione europea, tantomeno con i regolamenti parlamentari.
Essendo una fonte secondaria, la potestà regolamentare deve trovare fondamento in una norma di legge che attribuisca al titolare il relativo potere (principio di legalità). Il contrasto tra norma di regolamento e norma di legge, poi, deve essere risolto dal giudice ordinario in base al principio di preferenza di legge con disapplicazione conseguente dell’atto regolamentare, mentre spetta al giudice amministrativo dichiarare l’invalidità del regolamento contrario alla legge e annullarlo con sentenza.
E ancora, essendo fonte secondaria del diritto, la potestà legislativa non sarà presente in Costituzione, ma troverà il suo fondamento in una legge, in questo caso la legge 400/1988 (la stessa del decreto legislativo e del decreto legge). In Costituzione non sono previsti direttamente i regolamenti, ma sono evocati:
- art. 87.5 in cui si dice che il presidente della Repubblica emana il regolamento governativo
- art. 117.6 in cui è prevista la distribuzione del potere normativo a livello secondario tra Stato, regioni e enti locali.
9.1. Regolamenti dell’esecutivo
I regolamenti dell’esecutivo sono disciplinati, come detto, dall’art. 17 della l. 400/1988 che, al comma 3, distingue tra:
- regolamenti del governo, o governativi: i regolamenti deliberati dal consiglio dei ministri
- regolamenti interministeriali: i regolamenti deliberati in accordo tra due o più ministri;
- regolamenti ministeriali: i regolamenti deliberati da un singolo ministro sempre all'interno delle proprie attribuzioni ministeriali.
I regolamenti interministeriali e ministeriali sono adottati solo se previsto specificatamente da una previa norma di legge: se non vi è una legge dello Stato che decreta possibile per un ministro o più ministri di adottare uno più regolamenti, allora questi non hanno la potestà di farlo.
Tra regolamenti governativi e ministeriali-interministeriali sussiste un rapporto sia di separazione di competenza, sia di gerarchia.
9.1.1. Regolamenti governativi
I regolamenti governativi pongono problemi di organizzazione di disciplina al loro interno. Sempre all art. 17.1 della l. 400/1988 vengono distinte quattro tipologie di regolamenti governativi:
- regolamenti di esecuzione, per rendere più agevole l’applicazione di leggi e decreti legislativi e di regolamenti dell’Unione europea (tutte le fonti primarie);
- regolamenti di attuazione e integrazione, per attuare e integrare leggi e decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale;
- regolamenti indipendenti, per disciplinare materia sulle quali manchi una normativo di rango legislativo, purché non tratti di materia riservata alla legge;
- regolamenti di organizzazione, per disciplinare organizzazione e funzionamento delle amministrazioni pubbliche sulla base della legge;
- regolamenti di delegificazione (regolamenti autorizzati o delegati).
L’unico dato in comune che hanno tutte le tipologie di regolamento è il procedimento per attuarli:
- prima che il Governo li adotti, deve sentire il parere del Consiglio di stato, organo particolare che ha sia funzioni giurisdizionali (giudica controversie sulla legittimità della pubblica amministrazione) sia funzioni consultive (esprime pareri nei confronti degli organi che per legge li devono chiedere);
- vengono deliberati del Consiglio dei ministri;
- devono recare la definizione di “regolamento”;
- vengono emanati dal presidente della Repubblica;
- vengono pubblicati sulla Gazzetta in attesa della sua efficacia (vacatio legis, o meglio, del regolamento);
- devono essere sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei Conti (organo giurisdizionale che decide in materia delle controversi nell’utilizzo delle spese pubbliche e in materia pensionistica).
La diversità tra i singoli tipi di regolamento sta nel modo di come essi si rapportano con la legge, con la quale hanno un rapporto diretto essendo fonti secondarie.
- Regolamenti di esecuzione
Come specifica il nome di questa categoria, i regolamenti di esecuzione daranno esecuzione ad una legge che è già puntuale. Essi allora saranno conseguenti ad una riserva di legge assoluta con la quale la Costituzione obbliga il Parlamento a dettagliare ogni punto di una specifica legge (o qualsiasi fonte primaria). Dunque, con questi regolamenti, vengono eseguite leggi già puntuali, complete, perfette che mancano solo della possibilità tecnica per la loro esecuzione.
- Regolamenti di attuazione o integrazione
Come specifica il nome di questa categoria, i regolamenti di attuazione o integrazione integreranno una una legge che manca di qualcosa. Essi allora saranno conseguenti ad una riserva di legge relativa con la quale il Parlamento si troverà obbligato a riconoscere uno spazio di regolamentazione al governo. Le leggi recheranno quindi solo norme di principio e lasciano la possibilità al governo di attuare e integrare. Il regolamento però dovrà essere subordinato e rispettare la legge.
- Regolamenti indipendenti
Come specifica il nome di questa categoria, i regolamenti indipendenti sono indipendenti dalla legge. Questo non significa che non debbano essere legittimati dalle leggi, ma vuol dire che intervengono in materie in cui manca una disciplina a livello primario, salvo che quella materia non presenti una riserva di legge: se vi è un settore libero dell’ordinamento ed esso non è riservato alle discipline primarie, allora lì può intervenire il governo.
Però così sembra che i regolamenti siano indipendenti dal suo obbligatorio interlocutore che è la legge. È vero, ma si deve dire anche che i casi in cui vi sono settori non coperti dell’ordinamento non sono frequenti. Si apre quindi il dibattito:
- se si ritiene che il principio di legalità debba essere rispetto solo in senso formale, allora il regolamento indipendente è reso legittimo dall’art.17 della l. 400/1988;
- se si ritiene che il principio di legalità debba essere rispettato in senso sostanziale, allora il regolamento indipendente non è legittimo perché non trova attuazione nella legge (contro il principio di legalità).
- Regolamenti di organizzazione
I regolamenti di organizzazione non basano la loro ragion d’essere sulla differenza del quantum di intervento (come nel caso di regolamenti di esecuzione e di attuazione-integrazione), ma per la particolare materia della si interessano. Tuttavia, se la riserva è relativa, allora i regolamenti di organizzazione diventano praticamente regolamenti di integrazione o attuazione, solamente però di specifiche materie.
- Regolamenti di delegificazione
I regolamenti di delegificazione svolgono la funzione di ridurre l’area delle materie disciplinate dalla legge mutando disciplina dal livello primario al livello secondario (ciò significa de-legificare). Il criterio gerarchico delle fonti del diritto però, come sappiamo, non accetta che una disciplina originariamente legislativa venga disciplinata a livello regolamentare. Tuttavia il processo di delegificazione è reso legittimo in virtù di un’autorizzazione legislativa e può abrogare norme vigenti, salvo il caso in cui le materie in questione non siano coperte da riserva assoluta di legge.
Il processo di delegificazione avviene secondo un procedimento tipico diviso in tre momenti essenziali:
- deliberazione della legge di autorizzazione del potere regolamentare (che non era necessaria per gli altri regolamenti governativi), che deve determinare le norme generali regolatrici della materia oggetto di delegificazione; essa deve inoltre indicare (indipendentemente dal contenuto del successivo regolamento) le norme legislative la cui futura abrogazione è contestualmente disposta;
- emanazione del regolamento di delegificazione (previo parere parlamentare)
- abrogazione delle norme legislative vigenti, che è disposta dalla legge di autorizzazione, ma il cui effetto abrogativo si produce nel momento in cui entra in vigore il regolamento che disciplina ex novo la materia.
In questo modo viene rispettato l’ordine gerarchico delle fonti: non è il regolamento ad abrogare, ma è la legge di autorizzazione del Parlamento che decreta l’abrogazione dall’entrata in vigore del regolamento di delegificazione (per questo sembra che è il regolamento ad abrogare precedenti norme).
Di fronte a riserve di legge assolute non si può attuare lo schema della delegificazione, ma di fronte a riserve di legge relative si può in quanto è legge di autorizzazione che, stabilendo solo principi generali, lascia spazio di manovra al regolamento governativo. Tuttavia, la prassi che ormai si è consolidata, vede leggi di autorizzazione da parte del Parlamento che non sono puntali e quindi aumentano la discrezionalità del governo. Ancora più grave è il fatto che spesso la legge di autorizzazione non dispone della precedente norma da abrogare: così viene meno il principio di legalità perché le leggi da abrogare sono rimesse all’arbitrio del governo.
Nonostante il processo di delegificazione sia formalmente legittimo, esso può essere ampiamente criticabile da parte di coloro che difendono il principio di legalità in senso sostanziale. Lo schema procedurale è fragile e debole perché non è contenuto in Costituzione, ma in una legge ordinaria che potrebbe essere modificata o derogata dalla stessa legge di autorizzazione del Parlamento. Lo schema della delegificazione rimane integro solo se lo riconduciamo ad un principio costituzionale: il principio gerarchico delle fonti del diritto.
La questione sul da farsi rimane aperta: o si annulla il procedimento di delegificazione, o si chiarisce il procedimento da adottare mettendo da parte il principio di legalità in senso sostanziale, oppure si eleva il regolamento governativo a fonte primaria.
Un passo avanti è stato fatto introducendo il parere obbligatorio (non vincolante sul piano formale) delle commissioni competenti in materia sulle bozze del regolamento, per fare in modo che vengano rispettate le norme generali e le disposizioni da abrogare. Ma anche questo è lasciato alla discrezionalità del Parlamento.
Altro aspetto incongruente è che non è obbligatorio porre un termine temporale in cui il governo deve attuare il regolamento di delegificazione. Se il Parlamento non prevede un termine, il governo è perennemente titolare di delegificare la materia. Allora l’unico modo per il Parlamento di riappropriarsi della materia è quello di ri-legiferare nella materia precedentemente delegificata.
Si tenga ben differente il procedimento di delegificazione con il procedimento di adozione di un decreto legislativo: adesso stiamo operando in ambito di fonti secondarie. Tuttavia, alla luce delle prassi devianti che abbiamo illustrato, sembra che il processo di delegificazione possa essere facilmente assimilato al processo di delegazione legislativa, in quanto il regolamento governativo viene dotato di forza di legge e innalzato a livello primario delle fonti.
9.1.2. I regolamenti interministeriali e ministeriali
Per i regolamenti interministeriali e ministeriali è necessaria un’apposita disposizione legislativa che autorizzi l’esercizio del potere regolamentare. I regolamenti interministeriali sono adottati in materie di competenza di più ministri; i regolamenti ministeriali sono adottati nelle materie di competenza di un ministro o di autorità sottostanti al ministro. Entrambi sono sempre subordinati ai regolamenti del governo e devono essere comunicati al presidente del Consiglio prima della loro emanazione, con decreto interministeriale o decreto ministeriale.
9.2. Regolamenti di altre autorità
L'ordinamento contempla l’attribuzione di un potere regolamentare ad altre autorità (ad esempio autorità portuali e prefetti) e alle autorità amministrative indipendenti. Il potere regolamentare di altre autorità rispetto al governo deve essere esercitato nei limiti delle rispettive competenze e non può dettare norme contrarie a quelle contenute nei regolamenti del governo.
10. LE FONTI DEL DIRITTO REGIONALE
Sono fonti del diritto delle regioni: gli statuti delle regioni ordinarie, le leggi regionali, i regolamenti regionali. Gli statuti delle regioni speciali sono fonti statali di rango costituzionale.
10.1. Statuti ordinari
Il procedimento di approvazione e revisione dello statuto ordinario consta di due fasi:
- necessaria (art. 123.2 Cost.): approvazione dello statuto da parte del consiglio regionale con due successive deliberazioni a distanza non inferiore di due mesi; deve essere approvato con maggioranza assoluta dei componenti (diverso dall’art. 138 che prevedeva nella seconda votazione la maggioranza qualificata);
- eventuale (art. 123.3 Cost.): intervento del corpo elettorale mediante referendum, sempre possibile (diverso dall’art. 138 Cost. che non lo prevedeva in caso di maggioranza di 2/3 nella seconda deliberazione).
I contenuti e la procedura aggravato fanno del statuto regionale un atto fonte a competenza specializzata e sovraordinato rispetto alla legge regionale. Spetta pertanto alla Corte costituzionale valutare la conformità della legge regionale rispetto alle disposizioni dello statuto, potendosi configurare in questo caso un’ipotesi di incostituzionalità derivata (lo statuto diventa norma interposta).
10.2. Legge regionale
La legge regionale è approvata nelle forme e nei modi previsti da ciascuno statuto regionale. L’art. 117 Cost., dopo aver individuato le materie di competenza esclusiva della legge dello Stato (comma 2), provvede a elencare le materia di competenza concorrente tra lo Stato e le regioni (comma 3), stabilendo infine che alle regioni spetta la potestà legislativa residuale, cioè quella “in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (comma 4).
Quanto alla potestà legislativa concorrente, l’art. 117., delimita gli ambiti di competenza tra legge statale e legge regionale nel modo seguente: “nelle materie di legislazione concorrente spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.
Quanto alla potestà legislativa residuale, l’assenza di qualsiasi limite nell’art. 117.4 sembrerebbe accreditare la tesi che equipara la legge regionale alla legge ordinaria statale. In effetti, con la riforma costituzionale del titolo V sono scomparsi alcuni importanti limiti che la Costituzione prima poneva l’esercizio della posta legislativa regionale.
10.3. Regolamenti regionali
In base all’art. 117.6 Cost., a potestà regolamentare “spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle regioni”, mentre per tutte le altre materie spetta alle regioni. A seguito della modifica dell’art. 121.2 e 4 Cost., il consiglio regionale “esercita le potestà legislative attribuite alla regione”, mentre il presidente della giunta “promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali”. Quindi, il potere regolamentare può essere attribuito alla giunta o al consiglio, secondo forme stabilite dallo statuto di ogni regione.
I regolamento regionali sono sia subordinati alla legge statale sia a quella regionale. Non possono intervenire in materia di disciplina dell’organizzazione e dell’esercizio delle funzioni degli enti locali.
10.4. Statuti speciali
L’art. 116.1 Cost. stabilisce che il “Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta dispongono di forma e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti adottato con legge costituzionale”. Il procedimento è quello dell’art. 138 Cost., ma con due differenze:
- quando la revisione dello statuto è d’iniziativa del governo o del Parlamento, il progetto di legge costituzionale deve essere comunicato all’assemblea regionale, la quale ha due mesi di tempo esprimere il proprio parere;
- non si fa ricorso al referendum. L'intenzione è quella di favorire le revisioni statutarie promosse dalla regione speciali interessate senza sottoporle all'intero corpo elettorale, e quindi facendo del Parlamento l’unico soggetto cui è affidata la tutela dell'interesse nazionale.
- LE FONTI DEGLI ENTI LOCALI
Sono fonti degli enti locali:
- gli statuti
- i regolamenti
Essi sono disciplinati nel d.lgs 267/2000 del Tuel (testo unico sull’ordinamento degli enti locali) e nell’art. 4 della l. 131/2003.
- Statuti
Lo statuto costituisce l’atto fondamentale dell’organizzazione dell’ente locale. Secondo l’art. 6 Tuel, gli statuti di comuni e province sono deliberati e revisionati dai rispettivi consigli a maggioranza de due terzi dei consiglieri assegnati. Se la maggioranza non viene raggiunta il progetto di statuto è messo in votazione nelle due sedute successive entro trenta giorni dalla prima ed è approvato se, ottiene il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati.
- Regolamenti
Ogni ente locale, per l’esercizio delle proprie funzioni, dispone di potestà regolamentare. I regolamenti locali trovano fondamento, oltre che nell’art. 7 Tuel, nell’art. 117.6 Cost., il quale conferisce ai comuni, province e città metropolitane la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. La potestà regolamentare spetta al consiglio dell’ente locale. I regolamenti sono subordinati allo statuto, nonché alle leggi stati e regionali relative alla materia oggetto di disciplina regolamentare.
Lo statuto dell’ente locale incontra come limite solo la legge dello Stato, e in questo senso lo statuto non è una fonte primaria. Invece, i regolamenti locali incontrano limiti nella legge sia statale sia regionale: ciò in base al principio secondo cui l’organizzazione statutaria dell’ente locale si collega alla legge statale senza l’intermediazione della legge regionale, mentre i regolamenti locali devono rispettare anche le prescrizioni della legge regionale competente in materia.
12. LE FONTI ESPRESSIONI DI AUTONOMIA COLLETTIVA
Fra le fonti del diritto sono da annoverare anche le fonti che, espressione dell’autonomia dei privati, sono tuttavia direttamente previste nella Costituzione. Il presupposto perché siano considerate fonti sono:
- abbiamo come contenuto norme generali e astratte, anche se riferite a determinate categorie sociali;
- siano abilitate a produrre atti a efficacia erga omnes;
- siano assistite, per l’osservanza dei loro precetti, da apparati dello Stato (possibilità di ricorso al giudice);
- abbiano il trattamento proprio delle fonti del diritto.
Fra queste fonti sarebbero da annoverare i contratti collettivi di lavoro, destinati a disciplinare il rapporto di lavoro fra datori di lavoro e lavoratori (art. 39 Cost.). La disposizione contenuta nell’art. 39 stabilisce che una riserva di competenza per i contratti collettivi, così stipulati, ferma restando la possibilità per la fonte legislativa di stabilire i principi inderogabili entro cui deve svolgersi l’autonomia contrattuale. All’art. 39 non è stata data attuazione per ragioni varie nel corso degli anni per l’ostilità dei sindacati più piccoli che sarebbero stati penalizzati.
Il vuoto è stato riempito dai contratti collettivi di diritto comune, stipulati ai sensi del codice civile, che vincolano pertanto solo gli aderenti alle organizzazioni, imprenditoriali e sindacali, che li stipulano. Si sono ottenuti effetti non dissimili da quelli previsti dall’art. 39, grazie all’applicazione di quegli articoli del codice civile (artt. 2077 e 2113) che rendono invalide talune clausole dei contratti individuali difformi dal contratto collettivo. Ha concorso, infine, allo stesso esito la giurisprudenza che ha esteso tali contratti, in caso di controversia anche ai soggetti non obbligati, sulla base dell’art. 36 Cost. che prevede il diritto del lavoratore a una retribuzione proporzionata, individuando nei contratti in questione la base per determinare il minimo contrattuale dovuto. Ma questi contratti non possono considerarsi vere e proprie fonti del diritto.
Potrebbero invece esserlo i contratti collettivi per la disciplina del lavoro nelle pubbliche amministrazioni:
- le procedure per la loro stipula sono fissate dalla legge (d.lgs. 165/2001);
- la legge stessa stabilisce le norme per la formazione del soggetto contraente pubblico (l’Aran) e i requisiti di rappresentatività delle organizzazioni sindacali per essere ammessi al tavolo negoziale;
- i contratti sono vincolanti per tutti i dipendenti pubblici;
- essi sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale;
- è riconosciuta la possibilità di ricorso in cassazione per la loro violazione.
Qui siamo in presenza più che di un contratto, di una particolare fonte del diritto negoziata.
13. LE FONTI “ESTERNE” RICONOSCIUTE
Costituiscono fonti del diritto nell’ordinamento italiano anche le fonti appartenenti a un altro e distinto ordinamento cui il nostro faccia rinvio. Sulla base di determinati criteri di collegamento tra l’ordinamento interno e altri ordinamenti, si attribuisce a fonti normative esterne l’attitudine a produrre norme giuridiche nell’ordinamento interno. Tale effetto è possibile solo in quanto l’ordinamento giuridico riconosca, e quindi legittimi, fonti esterne ovvero fonti di un altro ordinamento giuridico.
Si parla di rinvio mobile o rinvio alla fonte, ossia del rinvio a tutte le norme che la fonte richiamata è in grado di riprodurre nel tempo, distinto dal rinvio fisso o rinvio alla disposizione, quando il rinvio avviene nei confronti di una determinata disciplina storicamente individuabile, senza che le vicende che la riguardano assumano rilievo nell’ordinamento interno.
Diverso è l’adattamento automatico alle norme generalmente riconosciute dall’ordinamento giuridico internazionale. L’adattamento è direttamente disposto dall’art. 10.1 Cost.: ciò significa che il fatto dell’esistenza di consuetudini internazionali fa si che quello stesso fatto sia produttivo delle corrispondenti norme anche nell’ordinamento italiano.
Costituisce invece un rinvio fisso o alla disposizione l’ordine di esecuzione, in genere dato con legge, attraverso il quale vengono recepite nell’ordinamento interno le norme contenute in trattati e accordi internazionali.
Le norme interne di riconoscimento sono vere e proprie fonti sulla produzione giuridica, così come le fonti eterne richiamata sono vere e proprie fonti di produzione. Le fonti esterne riconosciute, in quanto non deliberate dagli organi dello Stato, dal punto di vista del nostro ordinamento rileverebbero solo come fonti fatto: questa visione sarebbe in contrasto con il principio, affermato dalla nostra Costituzione, di apertura dell’ordinamento costituzionale ad altri ordinamenti. Norme interne che valgono come fonti sulla produzione di questo tipo sono le norme di diritto internazionale privato contenute nella l. 31 maggio 1995, n. 218.
Non tutte le norme straniere richiamate possono essere applicate: limiti sussistono sia quando, nonostante il rinvio, nel caso di specie insistono norme italiane di necessaria applicazione, sia quando gli effetti dell’applicazione della legge straniera sono contrari all’ordine pubblico, concetto generale col quale ci si riferisce a tutti quegli effetti indeterminabili a priori.
- LE FONTI FATTO
La fonte fatto per eccellenza e unica nel nostro ordinamento è la consuetudine, la quale consta di due elementi necessari:
- l’elemento materiale o longa repetitio facti: uno stesso comportamento ripetuto nel tempo da un corpo sociale;
- l’elemento soggettivo o opino iuris ac necessitatis: la convinzione, dopo un certo periodo, da parte di quel corpo sociale, che ripetere quel comportamento sia giuridicamente dovuto.
Se non esistesse questa convinzione saremmo di fronte a una semplice prassi, comportamento ripetuto che però non è considerato vincolante.
Facendo propria la visione kelseniana, nel nostro sistema delle fonti la consuetudine sta all’ultimo gradino: essa non può contrastare con le fonti scritte a lei sovraordinate. Quindi la consuetudine ha spazio se è nei limiti delle fonti atto. Si distinguono così tre tipi di consuetudini:
- consuetudine secundum legem, è pienamente conforme al diritto scritto;
- consuetudine contra legem, è contro il dettato del diritto scritto;
- consuetudine praeter legem: non è pienamente coerente con la legge, né contraria, ma è oltre il dettato legislativo e si occupa di qualcosa di cui il legislatore non si è preoccupato a redigere; per questo si dibatte sulla loro ammissibilità.
Il valore delle consuetudini è molto minore negli ordinamenti di civil law rispetto a quelli di common law, dove il diritto comune di origine consuetudinaria viene invece considerato diritto di rango superiore alla statute law, ossia il diritto statuito secondo procedure formali.
Le fonti fatto in materia costituzionale integrano le norme costituzionali scritte, definendo la posizione e regolando l'attività degli organi costituzionali. Si tratta del consuetudini costituzionali. A differenze delle consuetudini di diritto privato, hanno rango costituzionale in considerazione dei soggetti e dei comportamenti che esse disciplinano.
Tra le fonti fatto vanno ricondotte anche le convenzioni costituzionali le quali rappresentano il tentativo di trasposizione nel nostro ordinamento di una categoria del diritto anglosassone che ha caratteristiche del tutto simili alle consuetudini costituzionali. Cosa diversa sono invece le norme di correttezza costituzionale che potrebbero essere definite il “galateo” dei rapporti fra organi costituzionali.
15. LE FONTI DI COGNIZIONE E I TESTI UNICI
- “Fonti di cognizione”: quegli atti, non aventi forza normativa (a differenza delle fonti di produzione), i quali sono volti esclusivamente a rendere conoscibile il diritto oggettivo.
Nell’ambito delle fonti di cognizione bisogna distinguere tra quelle che hanno valore legale (Gazzetta Ufficiale) e quelle che hanno valore meramente conoscitivo.
15.1. La pubblicazioni degli atti normativi
Tutti gli atti normativi devono essere necessariamente pubblicati nelle forme previste dalla legge. Lo dispongono l’art. 73.3 Cost. e l’art. 10 delle preleggi. Gli atti normativi statali sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Gli atti normativi regionali sono pubblicati nel Bollettino Ufficiale di ciascuna regione. Gli atti normativi locali sono pubblicati mediante affissione all’albo pretorio dell’ente locale.
Le formule da usarsi per la promulgazione delle leggi costituzionali e delle leggi ordinarie dello Stato e per l’emanazione dei decreti legislativi, dei decreti legge e dei regolamenti adottati mediante decreto del presidente della Repubblica sono contenuto nel d.p.r. 1092/1985. Questo disciplina anche la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, curata dal ministro di giustizia (il “guardasigilli”). Il ministro cura l’inserimento degli atti e di tutti i decreti, nonché degli accordi internazionali e dei dispositivi delle sentenze della Corte costituzionale, nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana.
La Gazzetta ufficiale pubblica:
- leggi e regolamenti delle regioni e delle province autonome;
- regolamenti e direttive dell’UE;
- il testo integrale delle sentenze e delle ordinanze della Corte costituzionale.
Tutte le leggi sono promulgate con il nome di legge dal presidente della Repubblica (vale anche per le leggi costituzionali). Invece, gli atti normativi del governo sono emanati sempre con decreto presidenziale, ma vengono indicati con nomi diversi che corrispondono alla loro diversa natura: decreto legislativo, decreto legge, e nel caso dei regolamenti, decreto del presidente della Repubblica. Se si tratta di regolamenti non deliberati collegialmente dal Consiglio dei ministri, l’emanazione non avviene con decreto del presidente della Repubblica, e la denominazione sarà quella di decreto del presidente del Consiglio dei ministri, di decreto ministeriale, di decreto interministeriale.
Tutti gli atti normativi si citano indicando giorno mese anno della promulgazione o emanazione più il numero.
Gli atti legislativi e regolamentari entrano in vigore di norma il quindicesimo giorno seguente la loro pubblicazione (vacatio legis prevista al fine di dar tempo agli operatori del diritto di conoscere l’innovazione con anticipo sulla sua applicazione). L’atto stesso può però prevedere un termine diverso, successivo o precedente.
15.2. Testi unici e riordino normativo
Possono vere natura di fonti di cognizione oppure di vere e proprie fonti di produzione i testi unici, ossia i testi che raccolgono atti normativi preesistenti che disciplinano una medesima materia. I testi unici sono destinati al riordino della legislazioni vigente (eliminano e riducono la disseminazione di norme sulla stessa materia in un numero eccessivo di leggi, allo scopo di facilitare sia gli operatori giuridici sia di favorire la coerenza dei successivi interventi modificativi o integrativi del legislatore).
È necessario distinguere tra:
- testi unici compilativi: atti di natura amministrativa; hanno come fine esclusivamente quello di agevolare la conoscenza del diritto esistente in una certa materia;
- testi unici normativi: atti di produzione di diritto che non si limitano a raccogliere le norme vigenti, ma provvedono ad armonizzare la legislazione, modificando sostanzialmente la disciplina positiva.
I testi unici normativi sono deliberati dal governo nella forma di decreti legislativi sulla base di una legge di delegazione del Parlamento ex art. 76 Cost.
- legge --> l.
- legge costituzionale --> l.cost.
- decreto legislativo --> d.lgs.
- decreto legge --> d.l.
- decreto del presidente della Repubblica --> d.p.r
- decreto del presidente del Consiglio --> d.p.c.m.
- decreto ministeriale --> d.m.che
- decreto interministeriale --> d.i.
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