CAP. 12 - IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
- ALLE ORIGINI DELLA FIGURA PRESIDENZIALE
Ogni ordinamento statale conosce una figura istituzionale che lo rappresenta nella sua interezza e nella sua unità: sia nei confronti degli altri stati, sia al suo interno. Questa figura si usa chiamare capo dello stato, espressione che richiama l’idea di colui che sta in posizione più altra di tutto. In effetti, fino a tempi recenti, le funzioni del capo dello stato si sono identificate con quelle proprie dei sovrani. Oggi non è più così, anche se le monarchie restano numerose.
Quasi sempre campo dello stato è un organo monocratico, costituito cioè da una sola persona. Il capo dello stato può essere:
- un presidente della repubblica di estrazione rappresentativa, cioè eletto direttamente dal corpo elettorale oppure indirettamente da un collegio a sua volta tutto o in parte elettivo;
- un monarca di estrazione ereditaria, cioè è figlio o figlia di colui o colei che è stato re o regina, oppure titolare di altra carica nobiliare (ad es. il granduca di Lussemburgo) o altro titolo ancora (ad es. l’imperatore del Giappone).
Oggi, dei 27 stati membri dell’Ue, 7 sono monarchie (Belgio, Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Svezia). Ma, almeno in Europa, i capi di stato ereditari hanno da gran tempo perduto, se non formalmente certo sostanzialmente, le loro attribuzioni di natura politica, proprio perché mancano di legittimazione rappresentativa. Lo stesso non si può dire, invece, dei capi di stato di derivazione direttamente o indirettamente rappresentativa.
In alcuni casi costoro sono espressamente dorati di importanti attribuzioni, in quanto presidente che sono titolari del potere esecutivo, oppure che lo sono in relazione a certa materia: è il caso delle repubbliche presidenziali o semi-presidenziali.
In altri casi, i presidenti si trovano talvolta a utilizzare i propri poteri quando a ciò li indicano le circostanze politiche contingenti: è il caso di alcune repubbliche parlamentari. Per lo più, invece, ciò non accade e il ruolo presidenziale assume caratteristiche di mera rappresentanza tipiche oggi dei capi di stato ereditari. Talvolta è la costituzione stessa ad affidare al presidente compiti si arbitro o di garante del funzionamento delle istituzioni, più spesso la prassi, con gradi di attivismo e concorso a funzioni pubbliche.
- IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA: ELEZIONE E DURATA IN CARICA
Il presidente della Repubblica viene eletto dal Parlamento in seduta comune integrato da 58 delegati regionali (tre per ciascuna regione eletti dal consiglio regionale; la Valle d’Aosta ne ha solo uno): così dispone l’art. 83.1 e 2 Cost., il quale terzo comma richiede una maggioranza in ogni caso qualificata (nelle prime tre votazioni essa è di due terzi del collegio; dalla quarta votazione in poi è la maggioranza assoluta). Accantonata la possibilità di elezione popolare a suffragio universale, si volle includere una rappresentanza delle regioni in modo da allargare la base di legittimazione di un presidente chiamato dall’art. 87 Cost. a rappresentare l’unità nazionale.
Unico requisito è essere un cittadino che abbia compiuto i 50 anni di età e goda di diritti politici e civili (art. 84.1 Cost.). Chiaramente la carica non è compatibile con nessun altra (art. 84.2).
Il costituente voleva assicurare al presidente eletto un grado di consensi particolarmente elevato. Veniva vista con favore l’investitura a larga base politica che andasse anche al di là dei confini della maggioranza politica: se questa non fosse stata trovata nell’arco di qualche giorno si sarebbe proceduto con la maggioranza assoluta L’obbligo di una maggioranza comunque non ristretta va valutato in connessione con le singole funzioni attribuite al presidente e con il suo ruolo di vesti dello Stato e rappresentante dell’unità nazionale.
La durata della carica è sette anni (art. 85.1 Cost.). È una carica di notevole lunghezza (superata solo dai nove anni dei giudici costituzionali). Ciò lo svincola dai legami politici immediati con l’organo che lo elegge: in nessun caso un presidente potrebbe essere rieletto dalla medesime assemblee parlamentari e da delegati dei medesimi consigli regionali.
Il presidente gode di un assegno personale e di una dotazione finanziaria, entrambi fissati per legge. La legge 1077/1948 ha istituito anche un appartato amministrativo autonomo che risponde direttamente al presidente, il segretariato generale della presidenza delle Repubblica. Tale apparato consta di un segretario generale posto a capo di una struttura organizzata in servizi e uffici di consiglieri, nella quale lavorano circa 1.900 persone (circa 900 sono addetti alla sicurezza). Il bilancio annuo è di circa 230 milioni (2012), secondo i critici assai più consistente di quello delle omologhe amministrazioni dei capi di stato di altri paesi.
Se il presidente della Repubblica non è in grado di adempiere temporaneamente le sue funzioni (per visita all’estero, intervento chirurgico, malattia), l’esercizio di esse passa al presidente del Senato della Repubblica (art. 86.1 Cost.): l’istituto viene chiamato supplenza. Pare pacifico che il supplente debba attenersi a un’interpretazione particolarmente misurata del suo ruolo: è il buon senso e il rispetto del buon funzionamento delle istituzioni che impedisce al supplente di affidare incarichi, firmare decreti di nomina, o sciogliere le Camere. Sostanzialmente, il supplente farà bene a limitarsi ad atti di “ordinaria amministrazione”, astenendosi da qualsiasi iniziativa non strettamente concordata con il presidente in carica. Se la causa è una grave malattia o un serio intervento che lasci però sperare in una ripresa dell'esecrazione delle funzioni (non si entra ancora nell’ipotesi di impedimento permanente per morte o dimissioni), si può anche pensare a un pieno esercizio della supplenza.
Nessuna disposizione dice chi e come può constatare l'impedimento quando non possa essere il presidente stesso. Nel caso del presidente Segni colto da ictus nell’agosto 1964, l'impedimento fu constata d’intesa dai presidenti delle due Camere, dal presidente del consiglio, il che avviò la supplenza.
Quattro presidenti della repubblica si sono dimessi dal 1948: Segni, appunto per questioni di salute; Leone, sotto duri attacchi per scorrettezze politico-amministrative; Pertini e Cossiga per cessare dalla funzioni con qualche settimana prima di anticipo sulla scadenza; Ciampi, con anticipo di pochi giorni, per permettere al nuovo eletto di entrare nell’esercizio delle funzioni subito dopo il giuramento.
Il presidente che cessa per qualsiasi ragione dalla sua carica, destituzione da parte della Corte costituzionale esclusa, diventa senatore di diritto a vita, a meno che non vi rinunzi (art. 59.1 Cost.): la rinuncia fu prevista per dargli modo di ricandidarsi a cariche elettive.
- LE ATTRIBUZIONI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Secondo la Costituzione italiana il presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale (art. 87.1): si tratta di una giura, che, come si evince dal modo di elezione, non ha funzioni di indirizzo politico, bensì, di garanzia. Ciò trova conferma nel regime di responsabilità del presidente.
Poiché nessun altra definizione è presente in Costituzione, la figura del presidente della Repubblica va ricostruita in base alle attribuzioni giuridiche che essa gli riconosce e della prassi che si è affermata dal 1948 in poi.
La Costituzione assegna al presidente una serie di poteri rilevantissimi e largamente incidenti sull’esercizio sia delle funzioni esecutive, sia delle funzioni legislative, sia delle funzioni giudiziarie: ma con il corollario, per nulla marginale, dell’art. 89 Cost, in base al quale gli atti del presidente non sono riconosciuti come validi se non sono controfirmati da un componente del governo.
La controfirma è nelle origini istituto monarchico corrispettivo dell’inviolabilità della figura del sovrano: in quanto questi non era sottoponibile a sindacato sotto alcun profilo, i ministri, i più alti funzionari, firmando gli atti de re assumevano su di sé ogni responsabilità giuridica. La necessaria controfirma deve essere attuata dai ministri proponenti “che ne assumo la responsabilità” e per gli atti di valore legislativo necessita anche la firma del presidente del Consiglio. La questione della controfirma non è marginale: la controfirma da parte di un ministro o del presidente del Consiglio può assumere, significato implicito di proposta, nell’altro, mera assunzione di corresponsabilità e, in qualche modo, di controllo. Sta di fatto che la previsione dell’obbligo di controfirma per tutti gli atti del presidente, secondo il modello dello Statuto albertino, ha confuso le cose, e spiega perché da oltre sessant’anni si disputa intorno al carattere, sostanziale o meramente formale, di molti dei suoi poteri. Rimane allora da stabilire quali delle attribuzioni al presidente della Repubblica sono tali solo perché il presidente è capo dello Stato, ma in realtà deliberati da altro organi costituzionale (potere formale); quali delle attribuzioni, pur controfirmati, devono ritenersi suoi propri, cioè frutto di una sua discrezionale valutazione (potere sostanziale); quali, infine, devono ritenersi frutto di un concorso di volontà, quella sua e quella del governo (atti duali). Come ha detto la Corte costituzionale con la sen. 200/2006, la controfirma “assume un diverso valore a seconda del tipo di atti di cui rappresenta il completamento”.
Ecco i poteri che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica:
- Rappresentanza esterna
- accredita e riceve i rappresentati diplomatici;
- ratifica i trattati (eventualmente su autorizzazione delle Camere: art. 87.8);
- dichiara lo stato di guerra (deliberato dalle Camere: art. 87.9);
- effettua visite ufficiali all’estero, sempre accompagnato da un componente del governo.
- Funzioni parlamentari
- nomina fino a 5 senatori a vita (art. 59.2);
- può convocare le Camere in via straordinaria (art. 62.2);
- indice le elezioni e fissa la prima riunione delle nuove Camere (art. 87.3);
- può inviare messaggi alle Camere (art. 87.2);
- può sciogliere le Camere o una di esse, non potendolo fare negli ultimi sei mesi del mandato, a meno che essi non coincidano con gli ultimi sei mesi della legislatura.
- Funzioni legislativa
- promulga le leggi approvate dal Parlamento (art. 73.1 e 87.5) e può con messaggio motivato chiedere un nuova deliberazione (rinvio alle Camere), essendo, poi, obbligato a promulgare anche in caso essa non ci sia (art. 74);
- autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge del governo (art. 87.4);
- emana gli atti del governo aventi forza di legge (art. 87.5).
- Funzione esecutiva e di governo-indirizzo
- nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri (art. 92.2);
- accoglie il giuramento del governo (art. 93) e ne accetta le dimissioni;
- autorizza la presentazione dei disegni di legge del governo (87.4);
- emana i decreti legislativi e i decreti legge, nonché i regolamenti del governo (art. 87.5);
- nomina i funzionari dello Stato di grado più elevato (art. 87.7)
- conferisce le onorificenze della Repubblica (art. 87.12);
- ha il comando delle forza armate e presiede il Consiglio supremo di difesa (art. 87.9);
- dispone con decreto motivato lo scioglimento dei consigli regionali e la rimozione di presidenti della regione;
- emana una lunga serie di atti amministrativi, ovvero tutti quelli deliberati dal Consiglio dei ministri.
- Sovranità popolare
- indice le elezioni elle Camere (art. 87.3);
- indice i referendum (art. 87.6);
- dichiara l’avvenuta abrogazione della legge sottoposta a referendum.
- Esercizio della giurisdizione costituzionale
- nomina un terzo dei giudici della Corte costituzionale (art. 135.1);
- presiede il Consiglio superiore della magistratura (artt. 87.11 e 104.2);
- può concedere la grazia e commutare le pene (art. 87.11);
- adotta decreti che decidono i ricorsi straordinari contro gli atti amministrativi.
Alcune attribuzione sono figlie dirette delle attribuzioni regie (il poteri di firma degli atti deliberati dal governo; il potere di grazia; il ricorso straordinario), altre si sono “trasformate” e che comunque assumono nel contesto repubblicano un significato diverso (la nomina di alcuni senatori; al nomina del presidente del Consiglio; il potere di scioglimento delle Camere, ma qui deve tener conto del voto popolare e della posizione dei partiti; la promulgazione delle leggi con facoltà di rinvio al posto della sanzione regia), altre ancora che non esistevano nell’ordinamento statutario (la nomina dei giudici della Corte costituzionale; la presidenza del Csm; la presidenza del Csd).
Vi sono poi atti che si ritiene il presidente possa compiere senza controfirma: può dimettersi, può fare dichiarazioni informali in pubbliche occasioni come semplici manifestazione di personali opinioni (le esternazioni); esercita le funzioni di presidente degli organi collegiali su indicati (Csm e Csd); conferisce l’incarico di formare il governo (ma il decreto di nomina viene controfirmato dal presidente del Consiglio entrante).
Siamo di fronte ad attribuzione di rilevanza molto diversificata:
- attribuzioni il cui esercizio è in qualche caso formalmente, in diversi sostanzialmente, obbligato (il presidente deve promulgare la legge riapprovata dalle Camere dopo il rinvio; il ministro o il presidente del Consiglio possono difficilmente non firmare i decreti presidenziali relativi alla gran parte degli atti che devono entrare necessariamente nell’ordinamento;
- attribuzioni che riservano al presidente uno spazio di valutazione discrezionale (il rinvio alle Camere (per ragioni formali, o per ragioni di palese incostituzionalità: in 62 si sono avuti 60 rinvii), l’invio di messaggi alle Camere.
- attribuzioni che si possono definire di altissima valenza politica, in grado di influenzare il circuito dell'indirizzo politico.
Un esempio di dove si possa spingere l’ambiguità del testo costituzionale in materia di attribuzioni del presidente della Repubblica è venuto dalla controversia sull’esercizio del potere di grazia e sul rispettivo ruolo del capo dello Stato e del ministro di giustizia. L’iniziativa della grazia spetta in effetti sia al ministro di giustizia, sia, per prassi consolidata, al presidente. Tuttavia la necessità della controfirma ha permesso al ministri di bloccare il provvedimento nel caso in cui non lo condividesse. Il conflitto di attribuzione è stato sollevato dal presidente Ciampi, contro il ministro della giustizia 2005, ed è stato risolto dalla sent. 200/2006: la Corte costituzionale ha ritenuta la grazia “un potestà decisionale del capo dello Stato quale organo super partes” in quanto la grazia viene considerata un “eccezionale strumento destinato a soddisfare esigenze di natura umanitaria”. Di qui l’affermazione che non spetta al ministro impedire che il procedimento di concessione abbia corso e che il presidente adotti la sua decisione in merito. Dunque, questo è un esempio di atto sostanzialmente, oltre che formalmente, presidenziale.
- LA RESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
L’art. 4 dello Statuto albertino affermava che “la persona del re è sacra e inviolabile”. Chiaramente, oggi in Costituzione non è sancita una prerogativa del genere per il presidente della Repubblica. Tuttavia, come abbiamo già visto, è possibile prevede trattamenti diversificati, rispetto agli altri cittadini, non a titolo di persona privilegio, ma per garantire l’autonomia e la libertà nell'assolvimento delle funzioni che a essi sono attribuite.
L’art. 90 Cost. prevede così una forma di irresponsabilità del presidente per tutti gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, a meno che non si sia macchiato di due reati:
- l’alto tradimento: collisione con potenze straniere;
- l’attentato alla Costituzione: non qualsiasi genere di violazione della carta costituzionale, bensì quelle che siano tali da mettere a repentaglio caratteri essenziali dell’ordinamento (altrimenti anche l’adozione con decreto presidenziale di un atto successivamente dichiarato incostituzionale comporterebbe una responsabilità del presidente).
Il Parlamento in seduta comune e la Corte costituzionale rappresentano gli unici giudici degli eventuali atti e fatti ascritti al presidente e della loro suscettibilità di integrare l’art. 90.
È invece pacifico che il presidente risponda come ogni altro cittadino per tutte le azioni compite fuori dall’esercizio delle sue funzioni, cioè tutte quelle che nulla hanno a che vedere con il suo incarico istituzionale e che potrebbe compiere come qualsiasi altra persona. La dottrina allora si è domandata cosa fare in tali circostanze dal momento che manca qualsiasi disciplina. L’autonomia del presidente potrebbe essere lesa da eventuali indagini arbitrarie e tendenziose. Alla Costituente il presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini disse che, se si fosse trattato piccolezze, la magistratura non vi avrebbe dato corso o avrebbe atteso la fine del mandato; se si fosse trattato di reato serio, si sarebbe potuto configurare un impedimento e magari le dimissioni. Nel caso del presidente Scalfaro (1993) fu escogitata la strada della improcedibilità. il reato ipotizzabile (peculato) non era veniale, ma il presidente espressamente escluse ogni ipotesi di dimissioni; né si ebbe alcuna iniziativa parlamentare. Le indagini furono interrotte e, dopo la fine del mandato, furono concluse del 2001 con l’archiviazione per insussistenza di fatti.
Il procedimento per far valere la responsabilità del capo dello Stato per alto tradimento e attentato alla Costituzione si articola in due fasi:
- politica, è la messa in stato d’accusa da parte del Parlamento in seduta comune con voto a maggioranza assoluta;
- giurisdizionale, è il giudizio della Corte costituzionale: in questo caso integrata da 16 componenti estratti da un elenco di 45 nomi compilato dallo stesso Parlamento in seduta comune ogni 9 anni, il che indica l’intenzione del costituente di assicurare un giudizio che tenga comunque conto della valenza politica di casi del genere.
Il procedimento di accusa parlamentare si articola a sua volta in due fasi: l’istruttoria e la decisione.
L’istruttoria è condotta dal comitato parlamentare per i procedimenti d’accusa cui spetta il compimento di una prima serie di indagini in relazione alle denunce trasmesse dal presidente della Camera: interrogatori di testimoni e assunzione di prove.
Tale attività preliminare può concludersi o con un provvedimento di archiviazione per manifesta infondatezza delle accuse, o con una relazione da presentare al Parlamento in seduta comune, contenente le conclusioni cui è giunto il comitato, favorevoli o contrarie all’accusa. Dopo l’atto di accusa, con decisione della Corte costituzionale, il capo dello stato può essere sospeso dalla carica in via cautelare.
Il giudizio della Corte costituzionale si divide in diverse fasi: istruttoria, dibattimento, decisione.
Nell’istruttoria, condotta dal presidente della Corte o da uno o più giudici da lui delegati, si acquisiscono tutti gli elementi di prova ritenuti utili per la decisione (fra cui l’interrogatorio dell’imputato). Durante il dibattimento le parti (i commissari parlamentari per l’accusa, gli avvocati del presidente per la difesa) discutono sulle risultanze dell’istruttoria e fanno le loro richieste. Infine la Corte si riunisce in camera di consiglio per la decisione finale che potrà essere di assoluzione o condanna.
In caso di condanna potranno essere applicate le pene fino alla misura massima prevista dalla legislazione vigente al momento della commissione de fatti. Inoltre potranno essere applicate le sanzioni civili, amministrative e costituzionali (la destituzione) adeguate al caso. La sentenza così emessa è definitiva e non può essere impugnata in alcun modo, a eccezione delle ipotesi di revisione (se dovessero emergere elementi nuovi, prima non considerati, suscettibili di provare la non colpevolezza del presidente).
I precedenti di questa delicata materia sono assai limitati. Nel 1991 fu avviata un’indagine da parte del comitato bicamerale nei confronti dell’allora presidente Cossiga, per essere poi archiviata. Al di là delle sue intemperanze, nel caso di Cossiga si sarebbe corso il rischio di strumentalizzare a fini politici un istituto proprio della giustizia penale costituzionale. Spesso lo spettro della messa in stato d’accusa è stato evocato a fronte di scelte presidenziali sgradite (promulga, rifiuta di promulgare ecc.): ma senza assumere alcuna consistenza.
- IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA NELLA PRASSI
Le vicende della storia politico-istituzionale repubblicana hanno accentuato la difficoltà a ricostruire in modo convincente il ruolo di una figura, quale quella del capo dello Stato, che si può considerare strutturalmente ambigua: dovrebbe rappresentare l’unità nazionale, ma alcuni dei poteri che la Costituzione formalmente gli attribuisce sono tali da farne, all'occorrenza, uno dei protagonisti di scelte fortemente incidenti sull'indirizzo politico.
Per tutti problemi in relazione alla controfirma degli atti presidenziali, oggi è difficile sottrarsi alla constatazione che il presidente della Repubblica si è ormai evoluto in un contropotere d’influenza, il quale opera come soggetto autonomo, potere politico fra i poteri politici, anche se non di partito, titolare di un proprio indipendente indirizzo. È facile intendere che molto, se non tutto, dipende dalla rispettiva forza politica del governo da una parte, e del presidente dall’altra.
Ciò considerato, si possono capire le ragioni per le quali i nostri presidenti si sono trovati ad interpretare ruoli via via diversi:
- Luigi Einaudi, primo presidente istituzionale, si trovò ad operare in una fase politica in cui la maggioranza centrista fu coesa e compatta, diretta da una personalità forte come Alcide De Gasperi che fino al 1953 fu in grado di guidare sia il paese sia il partito di maggioranza relativa.
- Quando il centrismo fu politicamente sconfitto nel 1953 e cominciò a delinearsi l’ipotesi di un’apertura a sinistra, fu la volta di Giovanni Gronchi il quale, in un contesto instabile, si fece protagonista di interventi pesanti in materia sia di politica estera sia di politica interna e in generale di indirizzo politico. Fu suo il primo tentativo di varare un governo che rispondesse più al presidente che ai partiti: ciò fu possibile perché i parotiti non esprimevano una maggioranza coesa.
- Ne seguì, per un quindicennio, con le presidenze di Antonio Segni e Giuseppe Saragat, un forte ridimensionamento di qualsiasi velleità presidenziale.
- La crisi della VI legislatura e soprattutto della VII, si riverberarono subito sulla figura del presidente Giovanni Leone, egli fu costretto a dimettersi per scandali veri o presunti, mentre il successore Sandro Pertini, socialista, volle interpretare il proprio ruolo stabilendo un rapporto diretto con l’opinione pubblica: fui il primo presidente dell’era mediatica. Compì anche scelte innovative e assunse decisione che incisero sull'indirizzo politico. Così nominò per la prima volta presidente del Consiglio un non democristiano, il repubblicano Giovanni Spadolini che era alla guida di un partiti del 3%.
- Il presidente Francesco Cossiga trovò una situazione inizialmente più tranquilla: il pentapartito appariva in grado di guidare il paese. Ma quando anche questo entrò i crisi, alla fine degli anni Ottanta, Cossiga cercò di farsi promotore di un cambiamento istituzionale. Anche a causa di alcuni suoi eccessi verbali, il tentativo fu scambiato per qualcosa di diverse e, del resto, sulle riforme non vi erano consensi, sicché non solo non se ne fece nulla, ma suscitò reazioni aspre, fino all’avvio, per ragioni diverse, di un procedimento per la messa in stato d’accusa.
- Drammatica fu la XI legislatura, per la delegittamazione del vecchio sistema politico incapace di riformarsi, per la crisi finanziaria, per i tanti parlamentari sotto processo; e drammatica fu anche la XII legislatura, sia per le conseguenze del voto con la nuova legge elettorale, sia per la caduta del governo di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi (solo 7 mesi). La scelta del presidente Oscar Luigi Scalfaro fu quella di non assecondare le richieste di scioglimento delle Camere, ma di procedere alla formazione di un governo, che riuscì ad ottenere la fiducia delle Camere (governo Dini). Con l’avvio della XIII legislatura e il formarsi di una maggioranza sufficientemente ampia spostata verso centro-sinistra, Scalfaro limitò molto le proprie iniziative. Dovette fronteggiare però nuoce critiche per non aver usato lo scioglimento, quando il governo Prodi andò per due volto in crisi, e per aver proceduto, dopo la seconda crisi, alla nomina di un governo sostenuto da una pur diversa maggioranza di centro-sinistra.
- I sette anni di Carlo Azeglio Ciampi furono agevolati dal fatto che la XIV legislatura si è caratterizzata per l’ampiezza della maggioranza uscita dal voto del 1022. Dall’altro furono resi difficile dall’asprezza dello scontro tra maggioranza e opposizione. Parco nei messaggi, Ciampi ha fatto pure uso limitato del potere di rinvio, senza rinunciare a rinvii politicamente assai delicati. In più occasioni il presidente non ha esitato a esercitare un’influenza preventiva sul procedimento legislativo, il che ha poi finito per condizionare l’esercizio del potere di rinvio. Raramente un presidente ha mantenuto con tale costanza una così alta popolarità e anche la fiducia delle forze politiche, tanto che, se avesse accettato, senza alcun dubbio sarebbe stato rieletto. Forse il più grande contributo di Ciampi fu quello di sancire l'inopportunità di innovare la prassi del mandato unico, oltre.
Quanto alla presidenza di Giorgio Napolitano, si può dire che ha spesso assunto prese di posizione su temi di attualità, facendo ricorso a ripetute esternazione. Va sottolineato che egli ha compiuto una scelta di marca trasparenza: i comunicati stampa dal Quirinale si sono arricchiti di informazioni aggiuntive rispetto al passato. Inoltre, con grande frequenza, Napolitano ha ritenuto di accompagnare le decisione politicamente più delicate con dichiarazione volte a motivare le scelte compiute.
In particolare il presidente ha manifestato espliciti o impliciti indirizzi (in particolare rivolti al governo) intesi a qualificare la scelta di promulgare, ma non al punti da utilizzare il potere di rinvio. Napolitano aveva ritenuto di spiegare la promulgazione di altre leggi fortemente contrastate in sede parlamentare: ad esempio il lodo Alfano nel luglio del 2008, la legge della sicurezza del 2009. L’attuale presidente ha altresì invitato a governo e Parlamento a evitare emendamenti troppo ampi ed eterogenei ai disegni di legge di conversione di decreti legge.
Grande attenzione ha ovviamente prestato Napolitano al rapporto fiduciario, messo in dubbio dal distacco della maggioranza di un trentina di deputati e una decina di senatori al seguito del presidente della Camera Fini, invitato le Camere a verificare del rapporto fiduciario (autunno 2010), e poi nel novembre del 2012 dopo ulteriori defezioni parlamentari della maggioranza che avevano posto il governo in carica della Camera. la vicenda di concludeva con le dimissione del presidente del Consiglio Berlusconi e la scelta di Mario Monti, nominato senatore a vita e dopo pochi giorni, al di fuori di qualsiasi indicazione di partiti, presidente del Consiglio alla guida di un governo sostenuto sia da gran parte della maggioranza uscita dalle elezioni del 2008, sia da gran parte dell’opposizione, formato tutto da non parlamentari.
In effetti, da oltre un decennio, il capo dello Stato viene fatto oggetto, sempre di più, di pressanti sollecitazioni, vere e proprie “campagna” ora da parte della maggioranza ora da parte delle opposizioni, volte a influenzare l’esercizio dei suoi poteri più delicati: sfumando così la distinzione fra la sua figura di rappresentante dell'unità nazionale delineata dalla Costituzione e una figura di presidente portatore di un proprio indirizzo politico pur fondato sull’autonomo e imparziale apprezzamento dei supremi interessi. Ciò spiega forse perché Napolitano è parso voler accentuare deliberatamente la propria responsabilità diffusa di fronte ai cittadini e agli altri organi costituzionali, dando conto di ogni proprio atto: il che non gli ha risparmiato polemiche spesso sopra le righe che lo hanno ricorrentemente costretto a precisazioni e comunicati di insolita durezza.
Rimanendo in tema, merita parlare dell’importanza assunta dal Consiglio supremo di difesa. Di questo organo è stata rafforzata la capacità operativa e accentuata la dipendenza organizzativa e funzionale nell’ambito del presidente della Repubblica. Il presidente Napolitano ha incrementato la frequenza delle riunioni, assicurandone la regolarità. Il Csd va evolvendosi da mero organi di consultazione a protagonista attivo della politica di sicurezza del paesi: così era accaduto nel 2003 al momento di decidere in ordine all’intervento in Iraq, così è accaduto in modo ancora più chiaro in occasione della crisi libica del 2011.
Riguardo il potere di scioglimento delle Camere, la Costituzione prevede l’obbligo di controfirma del presidente del Consiglio: il presidente della Repubblica deve consultare previamente i presidenti delle due Camere, il cui parere non è però vincolante (art. 88.1.Cost.). Inoltre non può essere esercitato il potere di scioglimento negli ultimi sei mesi di mandato (il semestre bianco: art. 88.2), previsione per cui non volle correre il rischio che un presidente vi potesse far ricorso sperando di vedere elette Camere disposte a rieleggerlo.
Mentre un tempo era il re a decidere formalmente e sostanzialmente lo scioglimento, dall’avvento del governo parlamentare il potere di proporre lo scioglimento (con la certezza di ottenerlo) è del governo e, in particolare, del primo ministro.
Il potere di convocare le elezioni anticipate è un fondamentale strumento di stabilizzazione del governo parlamentare: la sola minacci di farvi ricorso serve più che non l’uso di esso, perché ai parlamentari in carica non piace mai il rischio legato a nuove elezioni. Proprio per questo è uno strumento “politico” per eccellenza.
Nei primi anni di vita della Costituzione, lo scioglimento fu considerato un potere governativo: e fu usato solo per fare in modo che la durata del senato di riconducesse a quella della Camera. Negli anni Novanta parve divenire un potere sostanzialmente presidenziale. Il presidente Scalfaro vi fece ricorso all'inizio del 1994, sia perché era stata varata una nuova legge elettorale sia perché aveva giudicato che fosse radicalmente mutato il quadro politico; invece non vi fece ricorso, all’inizio del 1995, dopo la crisi del primo governo Berlusconi; sciolse il Parlamento però, nel 1996 quando ritenne che le condizioni di parità delle forze in campo si fossero ristabilite; poi di nuovo disse di non essere disposto allo scioglimento quando questo fu minacciato dal presidente del Consiglio Prodi.
Il presidente Ciampi non si è trovato nella condizione di dover decidere in merito. nella Durante la movimentata XV legislatura, Napolitano invece si vide costretto a pronunciarsi in occasione delle due crisi del governo Prodi: nel febbraio del 2007 dichiarò di registrare le volontà dei gruppi politici di continuare la legislatura; nel gennaio 2008, prima ha esperito la possibilità di un governo “funzionale” affidato dal presidente del Senato, poi, registrato il mancato accordo tra maggioranza e opposizione, ha proceduto allo scioglimento.
Nel novembre del 2011, dopo le dimissioni del IV governo Berlusconi, lo scioglimento è stato evitato dando vita, come si è detto, a un governo di tecnici guidato dal professor Mario Monti, nel tentativo di garantire il sostengo delle principale forza politiche alle misure necessaria per fronteggiare l’emergenza finanziaria.
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