giovedì 5 settembre 2013

CAP. 10 - LA SOVRANITÀ POPOLARE


CAP. 10 - LA SOVRANITÀ POPOLARE

1. LA SOVRANITÀ APPARTIENE AL POPOLO
“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. L’art. 1 Cost. recita la sovranità popolare. Raramente una carta costituzionale ha usato un termine del genere: si parla di sovranità che “spetta al polo”, che “è” del popolo, che “risiede” nel popolo” e, spesso”, che “emana” dal popolo. Come attestano i lavori dell’assemblea costituente, fu scritta così per dire che:
  1. il popolo è titolare in senso giuridico della sovranità;
  2. il popolo di essa mantiene continuativamente il possesso;
  3. il popolo non vi può rinunciare e non può dunque trasferirla a nessun singolo individuo e a nessuna parte di sé (naturalmente può delegare l’esercizio della sovranità, ma non l’appartenenza).
Quindi, l’ordinamento italiano si fonda sul principio di popolo; è al popolo che la Costituzione affida la sovranità: non a Dio (come nello Stato liberale), non alla Nazione (come nello stato liberale ottocentesco). 
L'organizzazione dello stato e degli enti pubblici deve basarsi su tale criterio di legittimazione. Inoltre, alcuni dei poteri disciplinati dalla Costituzione restano affidati al popolo, o più esattamente, a quella parte del popolo cui l’ordinamento riconosce la capacità giuridica politica, il corpo elettorale. Ad esso è riservata la possibilità di concorrere a decidere o di decidere direttamente su questioni politiche di fondo (democrazia governante): il popolo si assume in prima persona la responsabilità del proprio destino.
Porre la sovranità del popolo alla base dell’ordinamento vuol dire, in prospettiva storica, voler sancire nel modo più solenne il rovesciamento dell’impostazione statolatra dello stato fascista. Ma significava anche prendere le distanze dalla teoria liberale ottocentesca che aveva parlato di sovranità nazionale, proprio per affermare che unica legittima forma di stato fosse quella rappresentativa, fondata sul suffragio ristretto della sola borghesia, vera interprete della nazione.
Lo Stato non è l’unico strumento per esercitare la volontà popolare. Concorrono:
  1. soggetti dotati di autonomia riconosciuti dalla Costituzione (regioni, enti locali)
  2. enti sovrannazionali
  3. il libero associarsi in partiti politici e in altre organizzazioni
  4. gli strumenti di democrazia diretta.
In senso giuridico, il popolo è l’insieme di tutti coloro che sono legati all’ordinamento giuridico dal vincolo di cittadinanza. L’insieme dei cittadini costituisce il popolo. Invece la popolazione è l’insieme di tutti coloro che si trovano entro i confini di un qualsiasi ente territoriali (nozione che non appartiene al diritto). Il popolo, da una parte, è parte della popolazione che si trova nel territorio di uno stato; dall’altra parte non si trova tutto nei confini di uno stato ma può risiedere anche fuori dai confini statali. Diverso ancora è il concetto di nazione, che identifica un vincolo sociale e, a volte, politico: quello che unifica e accomuna per tradizioni, storia, lingua, religione, origini etniche un insieme di persone fisiche.
Il vincolo di cittadinanza determina un vero e proprio status giuridico, vale a dire una somma di diritti e di doveri che da esso derivano: i diritti e i doveri politici, in particolare, di cui al titolo IV della parte I della Costituzione (artt. 48-54).

  1. IL POPOLO CHE VOTA
Del diritto di voto tratta innanzitutto la Costituzione all’art. 48, il quale stabilisce quattro punti fondamentali (divisione per comma):

  1. sono elettori tutti i cittadini che hanno la maggiore età (individuata da legge a 18, fino al 1975 erano 21)
  2. il voto è circondato da una serie di garanzie ed è definito “dovere civico”
  3. l'esercizio del diritto voto di chi risiede all’estero è disciplinato in forme speciali
  4. specifiche limitazioni al diritto di voto possono essere previste, ma solo dalla legge, per “indegnità morale”, ovvero per chi non ha la capacità accessoria, o come pena accessoria in caso di sentenza penale definitiva.

1. 
Si riprende la tradizionale identificazione tra cittadinanza ed elettorato. Ci si chiede, però, se persone che non hanno la cittadinanza ma vivono stabilmente nel territorio dello stato, adempiendo ai doveri che la loro residenza comporta e condividendo le conseguenze delle decisioni pubbliche assunte dalle autorità rappresentative (insomma, essendo membri della comunità pubblica in cui vivono), non dovrebbero dunque vedersi riconosciuto il diritto di voto. Secondo coloro che affermano queste tesi, minoritaria, l’art. 48 Cost. si limiterebbe a garantire, con norma costituzionale, il diritto di voto dei cittadini, senza che ciò ne impedisca l'estensione con legge ordinaria a coloro che cittadini non sono. Già adesso, per le elezioni comunali, in attuazione del diritto comunitario, la legge estende l’elettorato attivo (il diritto di votare) e l’elettorato passivo (il diritto di essere votati e dunque venire candidati) a tutti i cittadini non italiani dell’Ue. Inoltre, la legge prevede che i cittadini non italiani dell?Ue possono scegliere di votare ed essere candidati in Italia per il Parlamento europeo.

2.
La Costituzione vuole che il voto sia:
  • personale: deve essere espresso di persona, non è possibile una deroga (anche sulla base di certificati medici che attestino l’impossibilità di votare, c’è bisogno di un tutore)
  • uguale: non sarebbe legittimo il voto plurimo o multiplo, cioè l’attribuzione a specifiche categorie più voti (si vuole esprimere in altre parole il principio di eguaglianza)
  • segreto: vd appunti
  • quindi libero: se sono presenti i precedenti aspetti e il voto ed esente da qualsiasi forma di costrizione, il voto è libero.
Il riferimento al voto come dovere civico è frutto del compromesso dell’Assemblea costituente. Erano allora, in ballo concezioni diverse relativa alla posizione dell’individuo nella società e nell’ordinamento. Si disputava tra chi concepiva il voto come un diritto dell’individuo e chi lo concepiva come una dovere, il cui mancato adempimento avrebbe addirittura giustificato sanzioni. Partiti come la Dc, meno organizzati e meno capaci di mobilitazione rispetto a quelli della sinistra marxista e comunista, ritenevano indispensabile “obbligare” i cittadini ad andare a votare. Comunisti e socialisti la pensavano in modo diametralmente opposto. La formula “dovere civico” fu introdotta come invito a farlo, ma senza vincoli giuridici. Questo invito fu accolto ma con sanzioni assai blande (menzione del non voto nel certificato di buona condotta, pubblicazione negli albi comunali dei nomi di coloro che non avevano votato). Nel 1993 fu soppressi il riferimento al voto come “obbligo”, qualificando il voto come un diritto di ogni singolo cittadino che deve essere promosso dalla Repubblica.

3. 
Il terzo comma è stato introdotto dalla l. 1/2000 con la quale si è voluto legittimare una disciplina speciale e derogatoria (rispetto all’interpretazione del comma 2) per i cittadini italiani residenti all’estero. Questi hanno sempre goduto della titolarità del diritto di voto, ma erano costretti a tornare in Italia al momento delle elezioni. D’altra parte, mentre la legislazione per le elezioni europee prevede l’allestimento di sezioni elettorali nei paesi dell’Unione, lo stesso non è possibile per le grandi comunità italiane fuori dall’Europa. L’unica soluzione è apparsa il voto per corrispondenza che per definizione non può assicurare interamente la personalità del suffragio. A partire dal 2006 si sono previste di volta in volta, per ogni elezioni e per ogni referendum, discipline transitorie limitate ad alcune ristrette categorie di cittadini (personale militare e di polizia in missioni).

4.
Il quarto comma prevede che non godano dell’elettorato attivo, e anche passivo:
  • coloro che sono sottoposti a misure di prevenzione;
  • coloro che sono sottoposti a misure di sicurezza previste dal codice penale, detentive o non detentive;
  • coloro che sono stati condannati all’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici.

  1. IL POPOLO CHE ELEGGE
Per quanto l’ordinamento italiano preveda forme di decisione popolare diretta, la nostra è una democrazia rappresentativa, come tutte le democrazie moderne. Il fatto che sovrano sia il popolo implica che qualsiasi scelta politica debba essere compita da esso, o meglio da quella parte di esso a cui l'ordinamento riconosce la capacità di concorrere a decisioni collettive (il corpo elettorale). Le decisioni vengono prese attraverso la selezioni di propri rappresentati, i quali eserciteranno, legittimati dall’investitura popolare, le funzioni che l’ordinamento attribuisce all’organo a cui sono chiamati ad essere competenti. La selezione vede candidati che non si differenziano solo per le doti personali quante, anche e soprattutto, per la diversa connotazione politica: cioè per le cose che dicono di voler fare, per il modo come voglio farle, per le idee, gli interessi i valori che intendono rappresentare. 
Nel nostro ordinamento il corpo elettorale elegge:
  • i membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia;
  • i deputati e i senatori elettivi;
  • i presidenti delle regioni e i consiglieri regionali;
  • i sindaci e i consiglieri comunali;
  • i consiglieri circoscrizionali, nei comuni in cui siano previste le circoscrizioni.
Fino al 2011 eleggeva anche i presidenti delle province e i consiglieri provinciali, per i quali è stata introdotta dal d. l 201/2011 l’elezione indiretta.
Alla fenomeno elettorale è consacrata un complesso normativo imponente che costituisce nel suo insieme la legislazione elettorale, della quale il sistema elettorale è solo una parte. In realtà la legislazione elettorale comprende
  1. la disciplina delle modalità di indizione delle elezioni;
  2. la disciplina dell’elettorato attivo e passivo;
  3. le modalità tecnico-operative di esercizio del voto;
  4. le modalità secondo le quali si presentano le candidature;
  5. la disciplina delle campagne elettorali e della propaganda politica;
  6. la disciplina al finanziamento delle campagne elettorali;
  7. le modalità di allestimento delle sezioni elettorali;
  8. il procedimento elettorale nelle altre fasi fino allo scrutinio e all’assegnazione del conteggio dei voti espressi;
  9. la formula elettorale ad ogni tipo di elezioni;
  10. l’apparato di tutela nel caso di eventuali contestazioni;
  11. le modalità di sostituzione dell’ufficio di coloro che cessano per qualsiasi ragione dalla carica (surroghe o supplenze).

4. I SISTEMI ELETTORALI: CONCETTI GENERALI
  • Formula elettorale”: meccanismo per trasformare in seggi i voti che il corpo elettorale esprime
Occorre distinguere tra:
  1. elezioni di organi monocratici (composti da una sola persona)
  2. elezioni di organi collegiali (composti da una pluralità di componenti)

1. 
Quando si tratta di una sola persona (ad es. il sindaco) si può:
  1. Stabilire che vince chi ottiene più voti, cioè la maggioranza relativa, ovvero il sistema che gli anglosassoni chiamano plurality o first past the post (ad es. in Italia, così viene eletto il sindaco nei comuni sino a 15.000 abitanti);
  2. Stabilire condizioni in base alle quali vince chi non solo prendere più voti di qualsiasi altro candidato, ma almeno una quota minima dei voti validi o degli aventi diritto. Se questa quota è fissata nella metà più uno di coloro che votano, il sistema si chiama allora della maggioranza assoluta, ovvero majority, e impone che si stabilisca cosa fare nel caso che nessun candidato la raggiunge. In genere si procede a un secondo turno: allora si deve stabilire quali dei candidati del primo turno partecipano al secondo. Se la partecipazione è limitata ai primi due, siamo davanti ad un ballottaggio (ad es. in Italia, così viene eletto il sindaco nei comuni superiori a 15.000 abitanti). Se non si vuole limitare la partecipazione ai due, si può stabilire un altro numero qualsiasi, oppure una percentuale di voti minimi. 
In ogni caso si è di fronte a un esito maggioritario: a vincere è una parte sola, quella cui appartiene chi alla fine risulta l’unico eletto.

2.
Quando si tratta di un organi collettivo (ad. es il parlamento) si può, in teoria immaginare una formula che permetta a una parte sola di vincere: si fanno votare liste di candidati e quella che ottiene pi voti elegge l’intero organo. Ma ciò andrebbe contro il principio proprio degli stati liberaldemocratici. Al contrario ci si attende che l’organo collegiale sia rappresentativo della collettività, sotto il profilo politico e sotto il profilo territoriale. 
Questa capacità di rappresentare può essere ottenuta tramite:
  1. le formule maggioritarie sono quelle in base alle quali chi prende più voti conquista l’intera posta in palio, che si tratti di un solo seggio o di più seggi. Attraverso i collegi uninominali si può garantire sia il pluralismo territoriale che quello politico. Le due principali varianti sono:
  • plurality, in base al quale il seggio lo vince chi ottiene più voti in ciascun collegio uninominale;
  • majority, a doppio turno eventuale, in base alla quale il seggio lo vince chi ottiene la metà più uno dei voti, per cui se nessuno consegue questo risultato, si consegue con una seconda votazione fra i primi due o fra coloro che hanno riportato un certo numero di voti.
  1. le formule proporzionali sono quelle che ripartiscono i seggi da assegnare in misura tendenzialmente percentuale rispetto ai voti dati dagli elettori a ciascun partito. Perciò danno maggiori garanzie di corrispondenza fra numero di voti complessivamente attribuiti a una partito e seggi. Più che il contesto politico, è la formula aritmetica che in certa misura garantisce il risultato proporzionale. Non garantisce invece la rappresentanza territoriale, che può però essere assicurata grazie ad altre tecniche (ad es. anziché assegnare tutti i seggi ad un collegio unico, si dividono in più circoscrizioni territoriali plurinominali). Le formule matematiche per ripartire i seggi proporzionalmente sono decine e ciascuna dà esiti in qualche modo diversi: una formula può avvantaggiare in termini di seggi i partiti con meno voti e svantaggiare quelli con più voti, e viceversa. Inoltre, se si vuole ridurre il numero di partiti rappresentati (per limitare la frammentazione), si può stabilire che il partito che non ottiene almeno una certa percentuale prestabilita di voti non partecipi alla distribuzione dei seggi (è la soglia di sbarramento, utilizzata in misura diversa a seconda del tipo di elezione).
In genere i fautori delle formule maggioritarie sostengono che queste favoriscano l’individuazione di un partito o una coalizione vincenti e quindi di una maggioranza, dunque la governabilità, mentre i critici sostengono che ciò non avviene sempre e che comunque avviene a spese della rappresentatività, mentre i critici sostengono che ciò si traduce in assemblee frammentarie e incapaci di garantire il necessario sostegno al governo. 
Tutto ciò spiega perché, in Italia, sono state introdotto formule che, pur nell’ambito di un sistema a base proporzionale, garantiscono la “costruzione” di una maggioranza nell’assemblea rappresentativa o il suo rafforzamento: si ricorre all’attribuzione di un premio in seggi volto a far sé che chi prende nel complesso più voti ottiene comunque la maggiora parte dei seggi (55%, 60%, 65% del tot., a seconda dei casi). In altri termini, si vuole che il risultato maggioritario non sia affidato al caso, ma sia certo e assicurato per leggi: a tale scopo si preferisce sacrificare la rappresentatività dell'assemblea alla governabilità.
I sistemi elettorali che cercano di conciliare principio maggioritario e principio proporzionale nel tentativo di evitare gli svantaggi di entrambi, unendone i vantaggi, vengono chiamati misti: i sistemi elettorali italiani sono tutti misti.

  1. LE ELEZIONI PARLAMENTARI
Le formule elettorali delle elezioni parlamentari sono miste: su una base rigorosamente proporzionale e con eventualità di un premio: ripartiti i seggi proporzionalmente si verifica che chi vince ne abbia ottenuto un numero minimo; se così non è, si attribuisce a chi vince comunque un certo numero garantito di seggi, alterando così la proporzione attribuzione di essi (frutto delle modifiche dalla l. 270/2005).
I seggi da assegnare sono innanzitutto divisi su base territoriale: 617 seggi alla Camera sono ripartiti in 26 circoscrizioni regionali o sub-regionale (ad essi si sommano il deputato eletto nel collegio uninominale della Valle d’Aosta e i 12 deputati eletti nella circoscrizione estero); 309 seggi al Senato sono ripartiti “su base regionale”, cioè nelle 20 regioni (ad essi si sommano i 6 senatori eletti nelle circoscrizioni estero). Il riparto fra circoscrizioni e regioni avviene in base al numero degli abitanti. Al Senato, indipendentemente dalla popolazione, si assegnano a ciascuna regione almeno sette senatori (salvo il Molise che ne ha due e la Valle d’Aosta che ne ha uno).
La formulazione funziona così:
  • all’elezione sia della Camera sia del Senato concorrono liste di candidati, circoscrizionali e regionali, presentate dalle diverse forza politiche; si vota per una delle liste concorrenti alla Camera e per una delle liste concorrenti al Senato;
  • ciascuna forza politica può decidere di collegarsi in coalizione con una o più altre forze; se più liste si collegano, esse devono anche presentare un unico programma e un unicocapo della coalizione” (che si presuma la persona indicata per la carica di presidente del Consiglio);
  • le liste sono formate da un numero di candidati non superiore al totale dei seggi attribuiti a ciascuna circoscrizione (Camera: da 3 fino a 44) o regione (Senato: da 2 fino a 47) e non inferiore ad un terzo di essi; si tratta quindi, nella maggior parte delle circoscrizioni o regioni, di liste assai lunghe;
  • sulla scheda per la Camera e sulla scheda per il senato compaiono esclusivamente i simboli delle forza politiche che presentano le liste di candidati; i nomi dei candidati compaiono invece sui manifesti affissi ad ogni seggio elettorale;
  • è possibile essere candidati alternativamente a Camera o a Senato; ma posto questo limite si può essere candidati anche in tutte le circoscrizioni per la Camera o in tutti le regioni per il Senato; ciò permette non solo di avere gli stessi leader rappresentanti dappertutto, ma attraverso il gioco delle opzioni permetto un controllo degli eletti (se il candidato Bianchi à eletto, poniamo, in cinque circoscrizioni diverse, egli è tenuto a optare e la sua scelta della circoscrizione dove “restare” determina quale primo dei non eletti deve essere “punito” e quali devono essere “premiati” in ciascuna delle altre quattro);
  • la proclamazione degli eletti avviene sulla base delle liste bloccate: per ciascuna lista, vengono proclamati eletti tanti candidati quanti a essa spettano, traendoli esattamente nell’ordine secondo il quale sono stati collocati dai presentatori della lista.
Venendo alla ripartizione dei seggi fra le liste concorrenti, bisogna distinguere tra Camera e Senato:

Alla Camera:
  • si determinano i voti che ciascuna lista e ciascuna colazione di liste consegue sull’interno territorio nazionale (senza tener conto di quelli espressi in Valle d’Aosta): sono cioè sommati a) i voti ottenuto in tutte le circoscrizioni da ogni lista coalizzata o no e b) i voti ottenuto dall’insieme delle liste collegate in ogni colazione; è a questo punto che si tiene conto delle soglie di sbarramento, il mancato superamento delle quali determina la partecipazione o la non partecipazione al riparto dei seggi. Le soglie per liste coalizzate sono il 2%, per quelle non coalizzate sono il 4% (la differenza è stata voluta per incentivare le alleanze).
  • si procede ad una prima ripartizione proporzionale dei seggi fra le coalizioni e le liste singole che hanno superato le soglie; in questo modo si appura se una coalizione o una singola lista ha conseguito almeno 340 seggi; se il riscontro dà esito positivo, tutto finisce lì e i seggi sono ripartito anche all’interno delle coalizioni;
  • se tale riscontro non dà esito positivo, si procede a due distinte ripartizioni: alla coalizione o alla lista singola che ha avuto più voti, quale che sia questo numero, si attribuiscono comunque 340 seggi; per farlo, si sottraggono i seggi mancanti alle coalizioni o alle liste singole “perdenti”, fra le quali sono ripartiti proporzionalmente gli altri 227; si procede poi alla ripartizione all’interno delle coalizioni;
  • si stabilisce così quanti seggi spettano complessivamente a ciascuna lista coalizzata o no avente diritto a partecipare al reparto; dopo di che si stabilisce in quale circoscrizione a ciascuna lista spettano i seggi conquistati (in modo da far sì che ciascuna circoscrizione abbia i seggi che la legge a essa attribuisce).

Al Senato:
  • si applica la stessa formula della Camera, ma non su base nazionali, bensì regione per regione (tranne tre regioni) e con soglie di sbarramento diverse: il 20% per le coalizioni; per le liste, se non coalizzate l’8%, se coalizzate 3%;
  • in ciascuna di queste regioni si verifica se una coalizione di liste o una singola lista ha avuto un numero di seggi pari al 55% di quelli da assegnare in tutta la regione; se così è, il riparto è puramente proporzionale; se così non è, come alla Camera, si assegnano 340 seggi a chi vince, così in ciascuna regione si assegnano alla coalizione o alla lista singola più votata il 55% dei seggi, gli altri seggi vengono ripartiti fra le coalizioni e le liste “perdenti”;
  • in Molise i seggi costituzionalmente previsti sono solo due, dunque non si può fare il rapporto 55-45% e ci si ferma alla prima ripartizione proporzionale;
  • in altre due regioni si applicano formule diverse: in Trentino-Alto Adige/Südtirol, per venire in contro alle esigenze della minoranza linguistica tedesca, i seggi sono assegnati sulla base di sei collegi uninominali con formula maggioritaria, un settimo seggio è assegnato con il recupero dei voti non utilizzati nei collegi; in Valle d’Aosta, come alla Camera, il seggio è uno solo, quindi maggioritario.

Mentre alla Camera la coalizione o la singola lista vincente ottiene da 340 seggi in su e la coalizione e le singole liste perdenti da 227 in giù, al Senato i seggi totali della coalizione o lista vincente e di quelle perdenti sono un numero che deriva dalla sommatoria dell0‘esito della 20 diverse elezioni regionali.
È probabile che chi vince alla Camera vinca anche al Senato: ma di ciò non vi è garanzia alcuna; inoltre, mentre alla Camera chi vince ha necessariamente avuto più voti di qualsiasi altra coalizione o lista, può succedere che al Senato una coalizione vinca di poco nelle regioni che hanno più seggi in palio e perda nettamente nelle regioni che ne hanno meno, conseguendo meno voti e più seggi senatoriali. Infine può accadere che i seggi “esteri” al Senato risultino decisivi.
Le circoscrizioni estero eleggono 12 deputati e 6 senatori. Qui la formula è proporzionale e consente all’elettore anche il voto di preferenza per uno o due candidati della lista prescelta: applicato però a un numero di seggi minuscolo; una forte disproporzionalità, a vantaggio delle liste maggiori, è inevitabile.

Fino alla l. 270/2005, tre quarti dei seggi venivano attribuiti in altrettanti collegi uninominali con formula maggioritario di plurality. Il resto dei seggi era invece attribuito con formula proporzionale: per questa quota proporzionale, alla Camera, l’elettore votava su una seconda e diversa scheda, le liste erano bloccate ma molto corte, e c’era una soglia di sbarramento su base nazionale del 4%; al Senato, invece, si utilizzava una sola scheda, non c’era il voto di lista distinto dal voto uninominale, e non c’era soglia. Questo sistema misto prevalentemente maggioritario era stato introdotto con la riforma elettorale del 1993. La riforma del 2005 ha abolito i collegi uninominali e ripristinato un sistema interamente proporzionale (come prima del 1993), fortemente corretto, tuttavia, dal premio di maggioranza.
La formula elettorale delle l. 270/2005 puntava a favorire una competizione bipolare (fra due forza contrapposte). Il meccanismo dei premi cercava di conciliare la governabilità con  la rappresentatività. Molto però dipende da come i partiti lo interpretano: cioè dal modo in cui si presentano alle elezioni (coalizzati o no, con coalizioni ampie o ristrette).
Le elezioni del 2006 e quelle del 2008 hanno mostrato che la stessa formula può dare luogo ad esiti diversi: nel 2006 si è assistito al prevalere, di misura, di una coalizione molto ampia, frammentata e internamente poco coesa (regge solo 2 anni infatti); nel 2008si è visto prevalere, invece, una coalizione assai più ristretta, meno frammentata e potenzialmente più coesa. Questo perché, mentre nel 2006 tutti i partiti si erano suddivisi in due coalizioni-cartello “acchiappatutto”, ciascuna formata da una decina di liste, nel 2008 le due forza politiche maggiori si sono suddivise in due “mini-coalizioni”, ciascuna formata da una coppia di liste, rifiutando l’alleanza con partiti che non sembravano garantire omogeneità programmatica. 

  1. LE ELEZIONI REGIONALI
In base all’art. 122.1 Cost. la competenza in materia di sistema elettorale delle regione a statuto ordinario spetta alla legge regionale, sia pure nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalla legge dello Stato. Vige però una disciplina transitoria che prevede l’elezione diretta del presidente della regione unita all’elezione del consiglio sulla base dell’ultima legge elettorale statale per l’elezione dei consigli regionali.
La vigente legislazione elettorale regionale transitoria (ormai già sostituita in alcune regioni) si basa sull’elezione diretta del presidente della regione: a essa per legge consegue l’attribuzione della maggioranza consiliare alle forze politiche che si sono presentate insieme al presidente eletto. Infatti, la legge proporzionale del 1968 è stata modificata prevedendo, accanto alle liste provinciali, una lista regionale in cui capolista è il candidato alla presidenza della regione: tale lista contiene un numero di candidati paro a un quinto dei componenti del consiglio e vi si attinge proprio per attribuire un premio di maggioranza. Caratteristiche essenziali della formula sono:
  • si vota su una scheda sola per il presidente e per in consiglio e in un turno unico;
  • i candidati a presidente sono necessariamente collegati con una o più liste provinciali, oltre a capeggiare la propria lista regionale;
  • l’elettore può votare:
  1. il candidato presidente da solo;
  2. il candidato presidente e una delle liste provinciali cui è collegato;
  3. il candidato predente e una delle liste provinciali cui non è collegato (voto disgiunto);
  4. una lista provinciale da sola (in tal caso il voto si intende implicitamente espresso anche per il candidato presidente a cui è collegata);
Inoltre può esprimere un voto di preferenza all’interno della lista provinciale, scrivendo il nome di uno dei candidati.
  • il candidato presidente che ottiene più voti è eletto; con lui sono eletti non meno del 55% dei consiglieri delle liste a lui collegate attingendo alla lista regionale, e se necessario, anche assegnando seggi aggiuntivi. Nel caso in cui le liste collegate abbiano ottenuto meno della metà dei seggi, l’intera lista regionale viene eletta. Nel caso in cui abbiamo avuto la metà dei seggi o più, solo il 50% dei candidati nella lista regionale è eletto. E questo, appunto il premio.
Caratteristica di questa formula è che, combinando elezione diretta del presidente e composizione su base proporzionale del consiglio, dovrebbe garantire la governabilità e al tempo stesso far salvo un ampio pluralismo della rappresentanza: tuttavia, il rispetto della proporzionalità fra le diverse forza è solo interno alla maggioranza da una parte e alle minoranze dall’altra.
Rispetto al questo sistema, le leggi elettorali regionali si sono limitate a modifiche parziali, quali l’abolizione della lista regionale, l’introduzione di soglie di sbarramento più elevate, la garanzia che ogni circoscrizione provinciale esprima almeno un eletto.

  1. LE ELEZIONI COMUNALI
La legge elettorale degli enti locali (comuni, città metropolitane, province) è materia di competenza esclusiva dello Stato (art. 117.2 Cost.). La disciplina delle elezioni comunali si ritrova nel testo unico sull'ordinamento degli enti locali. Essa è caratterizzata dall’elezione diretta del sindaco, che venne introdotta nel 1993.
In realtà le formule previste sono due: quella relativa ai comuni maggiori (oltre i 15.000 abitanti) e quella relativa ai comuni minori (fino a 15.000 abitanti). La caratteristica principale di entrambe è che esse combinano elezione diretta con una composizione del consiglio comunale che garantisce al sindaco eletto una sicura maggioranza numerica rispettando la proporzionalità interna alle forza che lo sostengono, da una parte, e alle forza che resta in minoranza, dall’altra.

  1. Comuni oltre i 15.000 abitanti
Gli elementi essenziali della formula dei comuni maggiori sono:
  • scheda unica per eleggere sindaco e consiglio; essa è divisa in due parti: a sinistra i candidati a sindaco, a destra di ciascuno di esse le liste cui ogni candidato sindaco è obbligatoriamente collegato)
  • facoltà per l’elettore di votare:
  1. solo per un candidato sindaco; 
  2. per il sindaco e per una delle liste collegate;
  3. solo per la lista (il voto ricade sul candidato sindaco collegato);
  4. per un candidato sindaco e per una lista non collegata a esso (voto disgiunto);
  5. può aggiungere al voto di lista la preferenza per un candidato specifico.
  • per essere eletti sindaco occorre conseguire la maggioranza assoluta dei voti validi, se ciò non accade si ricorre a un secondo turno di ballottaggio fra i due candidati più votati al primo, i quali possono collegarsi ad altri liste;
  • il candidato eletto garantisce alle liste a lui collegate, salvo casi marginali, una maggioranza del 60% dei seggi consiliari, mentre il resto dei seggi va alle minoranze; i seggi sono ripartiti in base alla proporzione dei voti avuti dalle liste all’interno delle due quote di maggioranza e di minoranza; la soglia di sbarramento è del 3%.

  1. Comuni fino a 15.000 abitanti
Nei comuni minori ciascun candidato sindaco è collegato a una lista sola; si vota in un solo turno; il candidato che prende più voti è eletto e ciò comporta l’elezione dei due terzi dei consiglieri fra i candidati della sua lista; gli altri seggi sono ripartiti, in proporzione ai voti avuto, fra le altre liste.

Quanto alle circoscrizioni, limitate ai soli comuni molto grandi, le modalità di elezioni dei relativi consigli sono affidate dalle legge allo statuto del comune: in mancanza si applicano le norme relativi ai comuni maggiori. 
Con la disposizione del 2011 di ridurre in consiglieri elettivi a tutti i livelli, è come si fosse indirettamente posta una soglia di sbarramento in quanto con meno eligendi sale automaticamente la percentuale minima di voti necessari a conseguire almeno un eletto.

  1. LE ELEZIONI EUROPEE
La legge elettorale per il Parlamento europeo, oltre ad essere la meno recente, è quella che più si avvicinava a una legge elettorale proporzionale pura, finché nel 2009 è stato introdotto uno sbarramento in base al quale le liste che, sul piano nazionale, non conseguivano almeno il 4% dei voti espressi non partecipavano al riparto dei seggi. Funziona così:
  • i seggi da eleggere sono ripartiti in cinque grandi circoscrizioni pluri-regionali (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud, Isole) con un numero di abitanti assai diverso;
  • si applica la formula del quoziente naturale e dei più alti resti
  • non la si applica circoscrizione per circoscrizione, ma al complesso dei voti ottenuto dalle varie liste e una lista deve ottenere almeno il 4% per partecipare al riparto dei seggi;
  • sono previste le preferenze (tre e non una sola). Ciò determina una conseguenza perversa: comprendendo le circoscrizioni più regioni di popolazione assai diversa, per quello meno popolose è più difficile eleggere propri candidati e vi sono regioni senza rappresentanti.

  1. LA LEGISLAZIONE ELETTORALE “DI CONTORNO”
Alcuni aspetti:
  • In ordine alla presentazione delle liste di candidati, dopo le riforme degli anni Novanta, è stato ripristinato l’obbligo di sottoscrizione da parte di un certo numero di elettori di entità rapportata alla popolazione del collegio; successivamente sono però state introdotte deroghe così ampie (a vantaggio delle forza politiche già rappresentate al momento del voto) da privare quella disposizione di qualsiasi effetto.
  • In ordine alla responsabilità delle diversa fasi del procedimento elettorale, essa è affidata in parte al ministero dell’interno, in parte ai comuni, in parte ad organi istituiti di volta in volta (le sezioni elettorali, costitute dal presidente del seggio e dagli scrutatori, e gli uffici elettorali, formati da magistrati).
  • In merito alle contestazione eventuali avverso il procedimento, per le elezioni politiche, al fine di assicurare il rispetto degli interna corporis parlamentari, la competenza è attribuita dalla Costituzione alle stesse Camere. Invece per gli altri tipi di elezione la competenza a giudicare della legittimità del procedimento è affidata alla giustizia amministrativa in quanti i vari uffici elettorali sono considerati organi amministrativi; qualora, invece, si disputi di diritti (elettorato passivo o attivo) la competenza spetta al giudice ordinario.
  • La disciplina delle campagne elettorali prevede disposizione ch regolano l’accesso ai mezzi di informazione, le altre forme di propaganda, i limiti alle spese elettorali dei candidati e dei partiti, le forme di pubblicità di tali spese, al figura del mandatario elettorale, la tipologia delle spese elettorali ammesse, le forme di controllo e le sanzioni, con l’istituzione di un apposito collegio regionale di garanzia elettorale presso la corte di appello, i rimborsi elettorali ai partiti. Tetti alle spese elettorali sono previste anche per le elezioni regionali, per quelle del Parlamento europeo e nei comuni maggiori. 
  • Un specifica legislazione (per garantire la par condicio: v. l. 28/2000) disciplina minuziosamente l’accesso ai mezzi di informazione in condizione di parità fra le varie liste durante le campagne elettorali, e anche al di fuori di esse; tale disciplina vieta gli spot in tv, forma di propaganda in grado di suggestionare l’elettore, e vieta la diffusione dei risultati dei sondaggi sulle intenzioni degli elettori nei 15 giorni che precedono il voto.

10. COME SI SONO TRASFORMATE LE LEGGI ELETTORALI
Esiste una logica che accomuna le diverse formule elettorali? E in cosa, invece, esse maggiormente differiscono? Gli elementi comuni a tutte le formule elettorali italiane possono essere così sintetizzati:
  • tutte favoriscono l'aggregarsi delle forza politiche in due schieramenti contrapposti;
  • tutte prevedono qualche forma di sbarramento, ma in misura assai variabile (può risultare incisiva per Camera e Senato, molto modesta per elezioni regionali o locali);
  • tutte perseguono l’obiettivo di facilitare la governabilità tutelando la possibilità di accesso alla rappresentanza di una larga pluralità di forza politiche (frammentazione);
  • tutte si traducono in formule e sistemi definibili come misti.
La differenza, invece, riguarda il modo come obbiettivi identici sono perseguiti (governabilità più salvaguardia del più ampio pluralismo). A livello nazionale, esistono precisi vincoli costituzionali i quali hanno impedito l’elezioni diretta del vertice dell’esecutivo. Invece, nel caso delle regioni, province e comuni ciò è stato possibile. A livello regionale e locale, si è ritenuto di sacrificare la stessa composizione dell’assemblea all’obiettivo prioritario di garantire una maggioranza numericamente consistente e tendenzialmente solida al presidente o sindaco eletto. Ciò ha garantito una secca bipolarizzazione. Il cittadino elettore dispone così di un doppio potere: da un lato concorre alla scelta di chi deve governare, dall’altro concorre alla scelta di quale forza politica deve rappresentarlo.
A livello nazionale, nell’impossibilità di procedere in direzione analoga, si è battuta la strada della bipolarizzazione prima collegio per collegio, poi mediante il premio alla coalizione o lista più votata. Gli esisti finali sono più incerti, perché dipendono dal modo di presentarsi dei partiti (in coalizioni ristrette o con grandi partiti che si candidato a governare senza alleati) e dalla necessità di maggioranza omogenee nelle due Camere (il governo è legato da doppio rapporto fiduciario con Senato e Camera).

11. IL POPOLO CHE DELIBERA: I REFERENDUM
Il nostro ordinamento prevede alcune forme di decisione popolare diretta mediante referendum. Mediante referendum fu presa la decisione più importante della storia del nostro paese, la scelta il 2 giungo 1946 della forma repubblicana.
Un referendum consiste in una votazione sulla base di un quesito che viene sottoposto alla valutazione del corpo elettorale in forma varie e con effetti diversi. Vi sono referendum che hanno carattere meramente consultivo e altri che si possono definire decisivi o deliberativi nel senso che incidono di per sé sull’ordinamento. La caratteristica di tutti i referendum è che sono “giochi a somma zero”: nel senso che la volontà di colore che prevalgono diventa la volontà del popolo, non si ammettono compromessi o vie di mezzo diversamente dall’azione parlamentare.
La Costituzione prevede due principali tipi di referendum di ambito nazionale (le fonti statutarie prevedono altri referendum a livello regionale). Essi possono essere promossi su iniziativa popolare (referendum dal basso), diversamente da quanto avviene in ordinamento nei quali solo organi costituzionali possono farlo (referendum dall’alto).

11.1. Referendum costituzionale (art. 138)
Un tipo di referendum è quello approvativo o confermativo. Può essere promosso entro tre mesi dalla pubblicazione di una legge costituzionali, nel caso in cui questa non sia stata approvata nella seconda votazione dalla maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera. Titolari del diritto di chiedere il referendum sono:
  1. un quinto dei componenti del Parlamento;
  2. cinquecentomila elettori;
  3. cinque consigli regionali.
Quando ciò accade, l’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione decide con ordinanza sulla legittimità della richiesta. Successivamente il residente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, indice il referendum per una data posta tra il cinquantesimo e il settantesimo giorno dal decreto di indizione. Il testo di un referendum costituzionale è il seguente: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente... [titolo] approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n°... del... [data]”.
Possono prende parte alla votazione referendaria tutti i cittadini aventi il diritto di voto. 
  • Se la legge viene approvata dalla maggioranza dei voti validi, ciò viene attestato dalla Corte di cassazione e il presidente della Repubblica la promulga. 
  • Se la legge non viene approvata dalla maggioranza dei voti validi è come se il Parlamento non l’avesse mai adottata.
A differenza del referendum abrogativo, non è previsto alcun quorum strutturale e ciò dipende dal fatto che si tratta di concorrere a prendere una decisione, non di incedere su una norma già vigente.
Tutte le leggi costituzionali sono state approvate con la maggioranza dei due terzi, fino alla revisione costituzionale del titolo V del 2001. Il 7 ottobre fu indetto il referendum al quale parteciparono il 34% degli aventi diritto di voto, e il 64,2% di questi si è espresso per il sì. L’altra occasione in cui fu indetto il referendum costituzionale fu nel 2006, per la revisione della parte II della Costituzione approvata su iniziativa del governo Berlusconi. Dopo una partecipazione del 53% degli aventi diritto, il suo 61,3% si è espresso per il no.

11.2. Referendum abrogativo (art. 75)
Il referendum abrogativo fu l’unica forma di referendum legislativo introdotta in Costituzione allo scopo preciso di evitare che il Parlamento assumesse il carattere di unico organo sovrano. Il referendum abrogativo può sottoporre al corpo elettorale le seguenti domande: 
  • se il corpo elettorale deve esprimersi sull’eventualità dell'abrogazione di un’intera legge: “Volete voi che sia abrogata la legge... [data], n°..., [titolo]?”;
  • se il corpo elettorale deve esprimersi sull’eventualità dell’abrogazione parziale di una legge: “Volete voi che siano abrogati gli artt... della legge... [data], n°..., [titolo]?”.
Titolari del potere di richiederlo sono_
  1. cinquecentomila elettori;
  2. cinque consigli regionali.
Un parlamentare non può richiederlo in quanto il referendum abrogativo riguardo un atto di natura legislativa che esprime un indirizzo politico di maggioranza, che la minoranza non potrà mettere in discussione.
La disciplina dettagliata del referendum è contenuta nella legge 352 del 1970. Essa però è più articolata, in quanto la Costituzione prevede esplicitamente solo quattro limiti che non possono essere sottomessi al referendum abrogativo: il che ha determinato un meccanismo di verifica dell’ammissibilità delle richieste presentate che è stato affidato alla Corte costituzionale. Invece per garantire la legittimità del procedimento si occupa l’Ufficio centra per il referendum.
Ai sensi dell’art. 75.2 Cost. sono inammissibili i referendum aventi oggetto:
  1. leggi tributarie;
  2. leggi di bilancio;
  3. leggi di amnistia e indulto;
  4. leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali.
Vi sono, inoltre, limiti ulteriori individuati dalla Corte costituzionale con la sent. 16/1978, che si individuano interpretando il testo (limiti impliciti) e lo spirito (limiti logici) della Costituzione. Questi sono:
  • la Costituzione e le leggi formalmente costituzionali, per le quali l’art. 138 Cost. prevede un procedimento diverso e aggravato rispetto a quello ordinario;
  • le leggi a contenuto “costituzionalmente” vincolato, per le quali la Costituzioni detta l’unica disciplina possibile, senza lasciare margini di scelta al legislatore, e la cui abrogazione risulterebbe indirettamente l'abrogazione di una disposizione costituzionale (sono state considerate inammissibili le richieste di referendum dell’intera disciplina della giurisdizione militare in tempo di pace con la sent. 16/1978; e di alcuni parti della legge sull’aborto con la sent. 35/1997);
  • le leggi a contenuto “comunitariamente” vincolato, per le quali la discrezionalità del legislatore nazionale è vincolata al rispetto del diritto comunitario (inammissibile la richieste in materia di contratti di lavoro perché avrebbe reso inadempiente l’Italia davanti a obblighi internazionali: sent. 41-45/2000);
  • gli atti legislativi ordinari aventi forza passiva rinforzata, ossia le fonti specializzate in ragione della loro particolare competenza, la cui adozioni deve seguire procedimenti più complessi rispetto a quello ordinario;
  • le leggi collegate strettamente a quelle vietate dall’art. 75.2 Cost., le quali comprendono anche le leggi di esecuzioni dei trattati internazionali, le leggi di bilancio, le leggi finanziare per la formazione del bilancio;
  • le leggi obbligatorio o necessarie, quelle che devono necessariamente esistere nell’ordinamento perché direttamente previste dalla Costituzione (la stessa legge sul referendum abrogativo), a differenza dell leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, libero il legislatore quanto al contenuto della relativa disciplina.
Tra quest’ultime si colloca la discussione a proposito dei referendum su leggi elettorali, leggi necessarie per il funzionamento degli organi costituzionali, ma a contenuto libero, potendo il legislatore scegliere tra molteplici sistemi di elezioni. Con riferimento ad essa la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibili richieste di abrogazione totale. Le leggi elettorali possono essere sottoposte a referendum quando la richiesta colpisca solo alcune disposizioni e a condizioni che la disciplina che residua dopo l’abrogazione permetta comunque agli organi costituzionali di poter funzionare.
Ulteriori vincoli riguardano la formulazione del quesito referendario. Al fine di garantire la consapevole espressione del voto da parte del cittadino elettore, la richiesta deve essere: 1. omogenea: deve sottoporre al voto la scelta tra un alterativa secca;
  1. univoca: non contenere una pluralità di domande eterogenee;
  2. chiara: l’elettore deve essere in grado di capire qual è l’oggetto dell’abrogazione, quali ne sono le conseguenze e qual è il fine.
In buona sostanza la Corte ritiene che una richiesta è valida quando essa è riconducibile ad un unitario principio abrogativo espresso con chiarezza.
Se la Corte dichiara ammissibile il quesito referendario (presentato entro il 10 febbraio di ogni anno, in relazione alle richieste presentate entro il 30 settembre dell’anno precedente), il presidente della Repubblica indice il referendum che si deve tenere tra il 15 aprile e il 15 giugno (non si può tenere lo stesso anno delle elezioni parlamentari, perché non si possono chiedere richieste nei dodici mesi anteriori alla scadenza delle Camere).
Perché la consultazione abbia un esisto favorevole all’abrogazione non è sufficiente che i sì prevalgano sui no, ma deve aver partecipato la metà più uno degli aventi diritto: così volle il costituente consapevolmente aumentando il quorum strutturale. Infatti, egli ritenne che per sovvertire una decisione del Parlamento ci volesse una pronuncia popolare condivisa da una parte rilevante del corpo elettorale.
L’Ufficio centrale per il referendum verifica e proclama i risultati del referendum:
  • se la maggioranza è favorevole, il presidente delle Repubblica emana un decreto col quale dichiara abrogata la legge o parte di questa. Dal giorno dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale l’abrogazione ha effetto. Essa però può essere ritardata di 60 giorni dallo stesso decreto presidenziale per dare un margine di tempo per fronteggiare al meglio le conseguenze dell’abrogazione.
  • se la maggioranza è contraria, non si può proporre referendum sulle medesime disposizioni prima che siano passati 5 anni (vincolo che non si può applicare se la consultazione non è valida, cioè non è stato raggiunto il quorum strutturale).
Va anche aggiunto che il procedimento referendario può essere interrotto, in qualsiasi momento, nel caso in cui venga approvata una legge che abroga le norme oggetto della richiesta. Questo procedimento però non si applica (sent. 68/1978) nel caso in cui una nuova disciplina non modifichi principi ispiratori e contenuti essenziali di quella sottoposta a referendum. In tal caso l’Ufficio centrale per il referendum modifica il quesito abrogativo e lo “trasferisce” sulla nuova normativa: così i promotori vengono tutelati da abrogazione fittizie (successo con il referendum del 2011 in materia di energia nucleare).

11.3. Referendum relativi a modificazioni territoriali (art. 132 Cost.)
Ve ne sono di due tipi:
  1. il referendum che, in caso di voto favorevole, costituisce il presupposto di una legge costituzionale per la fusione di più regioni o per la costituzione d una nuova regione (art. 132.1 Cost.);
  2. il referendum che, in caso di voto favorevole, costituisce il presupposto do una legge ordinaria che consente a una provincia o a un comune di staccarsi da una regione e aggregarsi ad un’altra.
Le modalità attuative sono disciplinate nella legge 352 del 1970

11.4. Referendum regionali e locali
Agli statuti è rimessa la disciplina di referendum regionali e locali, che devono avere oggetto “leggi e provvedimenti amministrativi della regione” i primi, “materie di esclusiva competenza locale” i secondi. Un referendum confermativo eventuale è previsto per l’approvazione di statuti delle regioni ordinarie; nelle regioni speciali per l’approvazione delle “leggi statutarie”.

11.5. Altri referendum
Un singolare referendum fu quello di indirizzo che si tenne nel 1989; l’oggetto: il mandato costituente da conferire al Parlamento europeo. Non previsto dalla Costituzione, fu necessario varare una legge costituzionale introduttiva di tale consultazione una tantum  (l. cost. 2/1989).

  1. IL POPOLO CHE PARTECIPA: I PARTITI
I cittadini hanno a disposizione altri strumenti per concorrere a influenzare le scelte collettive, esercitando anche così la loro sovranità. Il maggiore consiste nell’associazionismo a fini politici generali, il sistema dei partiti politici
Il partito moderno è sorto nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e si è affermato nelle forme del partito di massa all’inizio del Novecento. Modello fu il partito socialdemocratico tedesco: furono i partiti socialisti i primi che organizzarono i lavoratori e i ceti meno abbienti disposti ad investire in politica per meglio imporre all’attenzione pubblica i loro bisogni. I partiti conobbero, in Italia, una prima fase in cui furono controllati o semplicemente tollerati come un male inevitabile; una seconda in cui divennero strumento per impadronirsi dello stato e imporre un indirizzo unico all’intero ordinamento. In particolare l'organizzazione totalitaria del potere fascista, si fonda sul partito unico. Non a caso, la fine del fascismo comportò l’immediato ritorno al pluralismo partitico: e sui partiti politici, prima di tutto si fondò il nuovo ordinamento costituzionale. Non può sorprendere dunque l’attenzione delle Costituzione ai partiti. 
La loro natura giuridica è del tutto peculiare: espressione della società (come formazioni sociali dove l'individuo svolge la sua personalità), sono più di una semplice associazione di fatto, e ricoprono un ruolo rilevante ai fini della funzionalità dell’ordinamento costituzionale.

Art. 49
Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.

L’art. 49 ha come destinatari i cittadini. Inoltre, da questa formulazione possiamo ricavare tre aspetti fondamentali dei partiti:
  1. la libertà dei singoli cittadini ad associarsi in partiti, che rientra nella libertà di associazione (art. 18); non sono i partiti che determinano la politica nazionale, ma i singoli cittadini che partecipano a questa funzione sovrano;
  2. la concorrenza: viene tutelata una pluralità di partiti che si pongono tra loro in concorrenza; una concorrenza che non è altro che di idee (si vuole chiudere la pagina dell’esperienza fascista);
  3. il metodo democratico: il metodo di concorrenza deve essere democratico; è la migliore o peggiore capacità di fare sintesi degli interessi della comunità ciò che fa guadagnare consensi ad un partito, non la violenza o l’intimidazione. 
Su quest’ultimo punto si è aperto un dibattito su come si dovesse interpretare il “metodo democratico”: l’intenzione del costituente era quella che si riferiva ai rapporti fra i partiti, cioè al carattere di competizione per il consenso degli elettori che la lotta politica avrebbe dovuto avere. Altri sostengono che, oggi, la disposizione possa essere interpretata allargando il “metodo democratico” anche all’interno del partito stesso: si tutelerebbe allora la natura democratica dell’organizzazione interna del partito vista anche come una formazione sociale (la quale viene tutelata sia nella sua interezza, sia nelle sue parti). Tuttavia oggi siamo rimasti ancora all’interpretazione del costituente: il partito deve rispettare le regole democratiche nei rapporti esterni, ma può essere organizzato senza selezione democratica della dirigenza all’interno.
La scelta di non sottoporre i fini del partito politico a sindacato, distingue il nostro ordinamento dalle democrazie protette. In nome della difesa della sua natura democratica, la Repubblica italiana prevede anche istituti non coerenti con i principi della democrazia liberale. Solo un’eccezione: il divieto di riorganizzazione del partito fascista.

Fino al 1993 era garantito ai partiti politici un finanziamento pubblico all’attività dei partiti e un rimborso elettorale. Con lo scandalo di Tangentopoli, il consenso di molti italiani venne meno e i partiti persero i finanziamenti pubblici. Tuttavia la l. 157/1999 aveva previsto come “rimborso” delle spese elettorali di consistenza tale da costituire un vero e proprio finanziamento pubblico simile a quello ordinario abrogato nel ’93. Ai fini dei rimborsi elettorali sono istituiti quattro fondi (per elezione della Camera, del Senato, dei consigli regionali, del Parlamento europeo), distribuiti tra i partiti in proporzione ai voti ottenuto ed erogati per ciascun anno di legislatura dei rispettivi organi.
Con la riforma del 2012 ha rafforzato gli obblighi di rendicontazione e i controlli interni ed esterni di tipo contabile sui partiti che ricevono i soli pubblici. In particolare, è fatto obbligo di avvalersi di una società di revisione iscritta all’albo speciale della Consob ed è istituita la Commissione per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti e dei movimenti politici, con sede presso la Camera dei deputati composta da cinque magistrati, dotata del potere di sanzionare inottemperanze e irregolarità con la decurtazione di contributi e rimborsi.

Altro aspetto cruciale dell'organizzazione partitica è stato a lungo i rapporto fra partito e gruppo parlamentare. Nel nostro ordinamento, il partito politico si è affermato prima nella società e poi nelle istituzioni, diversamente da quanto era accaduto altrove. La sua presa è stata nel Secondo dopoguerra fortissima, invasiva, tant’è che si è parlato di partitocrazia, espressione con la quale si intende segnalare l'eccessivo potere dei partiti e la loro tendenza a impadronirsi della istituzioni rappresentative, occupando tutti i posti di potere. Anche per reazione a questo fenomeno, nella transizione degli anni Novanta partiti su cui era fondata e consolidata la democrazia italiana dal 1943 si sono sfaldati e trasformati, dando vita a un sistema frammentario e dall’incerto consolidamento, nel quale la legislazione elettorale ha introdotto attori nuovi, le colazioni. Si fa avanti la prassi di far partecipare gli elettori alla cruciale fase della selezioni dei candidati, con ricorso alle elezioni primarie, indette da singoli partiti o coalizioni. Tuttavia, a tanto pluralismo frammentato non sembra corrispondere maggiora democraticità interna, ma piuttosto, debolezza programmatica e organizzativa e tatticismo esasperato. Nonostante ciò, la società italiana è tanto mutata che sarebbe impossibile pensare di ritornare al modello del partito di massa.

  1. ALTRI ISTITUTI DI PARTECIPAZIONE POLITICA
I cittadini hanno a disposizione ulteriori istituti e forme di partecipazione.

  1. La petizione
La petizione consiste in una delle forme più antiche di rapporto tra sudditi e autorità, ed è stata mantenuto dall’art. 50 Cost., ma con espressa esclusione di azioni a sostegno di interessi puramente personali: infatti si parla di petizioni rivolte a “chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”. Ciascun cittadino anche individualmente può presentarne, e i regolamenti delle due Camere dispongono che siano esaminate in commissione. Tuttavia, è difficile che le petizioni abbiano seguito.

  1. L’iniziati legislativa popolare
Più rilevante è l’iniziativa legislativa popolare, ex art. 71.2. Cost., il quale prevede che cinquantamila elettori possano presentare un progetto di legge redatto in articoli a una delle due Camere. La camera accerta la regolarità della richiesta. I regolamenti parlamentari prevedono che, diversamente dagli altri progetti di legge, quelli di iniziativa popolare non decadano a fine legislatura e non debbano pertanto essere ripresentati.

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